• ANALISI POETICO-MUSICALE


    Premessa

    Fra i cantautori Fabrizio De André è sicuramente oggi il più studiato, frequente oggetto di riflessioni, soggetto di libri, di testimonianze e documentari. Tanto si è detto e tanto si dice: il mercato vanta decine di titoli. Sono del parere però che troppo spesso si privilegi in questi lavori la componente aneddotica, relegando gli aspetti tecnici, magari meno avvincenti ma più interessanti, in secondo piano.
    L'amicizia viene spesso confusa con la competenza e la completezza nello studio.
    Un aspetto, che non esula del tutto dall'oggetto di questa analisi, ancora poco trattato, è la genesi delle canzoni di De André. Genesi intesa non solo in termini di contenuti e tematiche ma anche in termini di vero e proprio lavoro tecnico. Fra la sua produzione molte canzoni sono state composte a quattro mani, se non a più mani, con altri autori (ad esempio G. Bentivoglio) , musicisti (N. Piovani, M. Pagani) o cantautori (M. Bubola, F. De Gregori, I. Fossati), ma non sempre è chiaro in che termini si sia svolta la collaborazione. Frequentando per un po' di tempo l'ambiente di musicisti e amici che ruota intorno al personaggio De André mi è capitato di trovare cantautori, di cui non faccio nomi, che vantano di aver composto interamente alcune di queste canzoni, anche se ufficialmente non è così. Si sa, è molto più facile affermare una tesi se non c'è più chi può confutarla. Ad ogni modo è un campo ancora da esplorare fino in fondo e di cui è molto difficile valutare le testimonianze dirette.

    Ho scelto di tentare un'analisi della canzone Ho visto Nina volare perché penso sia rappresentativa dell'ultimo periodo creativo di De André. Inoltre è possibile rintracciare o dedurre in qualche modo la genesi di questo lavoro, perlomeno a livello superficiale, le testimonianze di Ivano Fossati, coautore, e la vicenda biografica di De André.


    Anime Salve

    Un aspetto che rende De André uno dei più interessanti cantautori a livello internazionale è il suo percorso artistico. Pochi come lui hanno saputo mettersi in gioco, accrescere il proprio bagaglio tecnico, far frutto delle molteplici esperienze e non ultimo capire i propri limiti e cercare in altre persone il mezzo per superarli. Qualsiasi persona, anche con pochissima competenza musicale, può notare la grandissima differenza che sussiste fra le prime canzoni, che risentono dell'influsso e dello studio di Brassens, Cohen e successivamente Dylan, e le ultime, vero e proprio sunto delle conoscenze maturate in poco più di un trentennio di attività artistica. Queste differenze non si notano a livello profondo, a livello cioè di contenuti: De André dichiarò più volte negli ultimi anni che La città vecchia era un sunto del suo pensiero; dato che questo brano è stato scritto nel 1962, a 22 anni, non si può non dar credito all'affermazione dell'autore che un artista ha poche idee ma fisse. L'evoluzione artistica è invece riscontrabile soprattutto nell'affinamento della tecnica letteraria e nella ricerca musicale, aspetti costantemente approfonditi nelle collaborazioni con musicisti italiani di varia provenienza (sia culturale che musicale). Si pensi a quanto sia stata significativa la collaborazione con la PFM e successivamente con Mauro Pagani o Ivano Fossati per la ricerca strumentale, oppure all'esperienza con De Gregori che ha segnato il passaggio ad un uso del verso molto più libero.
    Anime Salve (1996-BMG RICORDI) è il vertice di questa evoluzione ed è toccante il fatto che coincida involontariamente anche con il testamento dell'autore. Se lo si ascolta da più prospettive (letteraria, musicale, dei contenuti) e si ha un po' di cognizione dei lavori precedenti si troveranno qui, in nove canzoni, tutti gli ingredienti che costituivano i singoli periodi della produzione di De André. In ambito letterario l'uso di più lingue (brasiliano, rom, genovese), l'utilizzo di una metrica libera, l'incredibile capacità di condensare in poche parole contenuti complessi; in ambito musicale l'utilizzo di strumenti della tradizione popolare mediterranea, la perfezione nella costruzione e nell'orchestrazione (De André era diventato sempre più esigente in proposito) e non ultimo un utilizzo raffinato delle sue qualità vocali, anch'esse affinatesi con gli anni. Per quanto riguarda i contenuti il discorso è molto più complesso. E' come se De André avesse scritto un libro e l'avesse messo in musica. Il libro è in versi, il titolo è "Anime Salve", l'argomento è il mondo intero, i protagonisti sono tutti quei personaggi che hanno sempre popolato le poesie in musica dell'autore, che in un certo modo gli sono stati vicini, ma a cui soprattutto egli è stato vicino: prostitute, travestiti, rom, bambini, emarginati, esclusi, noi stessi, anime solitarie. Per leggere questo libro bisogna ascoltarlo, comprenderlo, interpretarlo così come andrebbe fatto con il mondo; non esiste una scrittura per codificarlo o insegnarlo, ciascuno deve fare la propria esperienza, ciascuno deve cercare di capire.


    Ho visto Nina volare. Un primo ascolto

    L'impressione di un primo ascolto è fondamentale, e soprattutto interessante. Quanto si riesce a comprendere di questa canzone alla prima esperienza? Qual è l'impressione diretta, l'effetto che ha sull'ascoltatore? Cosa ci si immagina?
    Ascolto quest'album dal 1996, da quando avevo cioè 12 anni, e perciò mi risulta difficile immedesimarmi nell'esperienza di un primo ascolto. Per prima cosa è da molto che mi interesso al personaggio De André, quindi il mio ascolto non potrà essere incosciente e non informato. Seconda cosa all'epoca ero in un'età un po' troppo "immatura" per poter comprendere a fondo i molteplici spunti di questo lavoro, quindi non vale neanche riportare l'esperienza fatta allora: sarebbe troppo parziale. Non mi resta che far finta di mettere questo cd per la prima volta nel lettore e completare le prime considerazioni in una seconda fase, alla luce delle informazioni che già possiedo.

    Introduzione strumentale
    Affidata al tom, al couscous (strumento a percussione) e alla chitarra classica occupa i primi 30 secondi della canzone. In sé non presenta nulla di sorprendente per la prassi compositiva di De André: la chitarra è sicuramente lo strumento più usato, sempre presente in quasi tutte le sue 128 canzoni. Un uso più accurato delle percussioni arriva soprattutto dopo l'incontro con Pagani, in particolare dopo lo studio sugli strumenti della tradizione mediterranea fatto per l'album Creuza de ma; anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un mezzo ormai codificato. Il giro armonico della chitarra (Do-, Fa, Sib7, Sol-, Do-) è anch'esso familiare a questo linguaggio, soprattutto per l'utilizzo del V grado minore, quindi del Sib anziché del Si naturale, cioè la sensibile (si pensi al giro armonico di Il ritorno di Giuseppe o a Geordie). Questo espediente ha sempre dato ad alcuni giri armonici di De André un qualcosa di antico, seppur in modo stereotipato. In effetti l'utilizzo della scala armonica naturale rimanda a tutta quella musica costruita nel periodo di transizione fra concezione modale e concezione tonale. Sarebbe interessante sapere se le conoscenze musicali del cantautore genovese si spingessero fino a tanto oppure se questa prassi era semplicemente derivata ad esempio dall'ascolto assiduo dei cantautori francesi in gioventù.

    I strofa
    La prima strofa, cantata , come sarà poi tutta la canzone, su un giro armonico semplicissimo di Do- e Sol7/Si-, ad un primo ascolto risulta molto criptica. "Mastica e sputa..." sembra un monito, un consiglio, un proverbio, ma il significato rimane abbastanza oscuro. L'estensione limitata della melodia (di una quarta: Si2 / Mib3), l'andamento sincopato della chitarra che si incastra con il precedente e persistente ostinato delle percussioni, nonché il tono malinconico della voce, accentuato rispetto al timbro naturale, contribuiscono a creare un tono quasi misterioso e a tratti rassegnato, come se si stesse ripetendo un detto popolare antichissimo di cui si è perso il senso ma di cui si percepisce a pelle il significato recondito.

    strofe II-IV
    Dalla seconda strofa sembra iniziare una riflessione fatta di domande e ricordi. La prima riflessione, la prima domanda, è rivolta alla luce e in senso lato al mondo, all'universo, alla vita e quindi all'origine, a Dio.

    Rispetto alla prima strofa la melodia cambia, ma non in modo sostanziale. L'estensione è maggiore (Sol2 / Sol3) e il primo e il quarto verso di ciascuna strofa con questa melodia (cioè II-IV, VI-VII, IX-X) sono intonati a partire dalla nota più acuta (Sol3). Questo conferisce un tono più intenso, modulato sapientemente da De André dinamicamente e timbricamente a seconda del contesto. In questo modo si aggiunge un elemento alla comprensione del testo, un modo di intonare più comunicativo, teso però non alla stereotipazione di un sentimento come spesso capita di sentire in tanti cantanti popular (e non solo) ma alla raffinata materializzazione vocale dei significati.

    La terza strofa introduce il personaggio del titolo della canzone. Non ci viene detto chi sia, semplicemente veniamo a sapere che è un personaggio conosciuto dall'Io narratore, probabilmente da bambino. La metafora e la similitudine utilizzate rivelano il desiderio che ricorda di aver provato nei confronti di Nina. Un desiderio quasi inspiegabile per l'età, forse le prime manifestazioni di un impulso sessuale celato nel testo da un immagine così bella e pura come quella del vento e dell'altalena. Per certi versi viene in mente Cherubino nelle "Nozze di Figaro".

    La terza strofa è unita alla quarta e questo avviene tramite un lievissimo glissato della voce sulla parola "schiena". In effetti il concetto che segue è strettamente legato al desiderio di Nina: la paura del giudizio del padre di lui. Ancora una volta siamo riportati nel mondo dei bambini, quando la figura paterna incute un certo timore in relazione a ciò che crediamo sia proibito. Poi ci sono le reazioni, esagerate, tipiche di quell'età: dovrò cambiar paese, mi imbarcherò sul mare, scapperò di casa...

    V strofa
    La quinta strofa conclude la prima parte della canzone. Il testo è identico alla prima (unica variazione: "faccia" al posto di "venga" nell'ultimo verso). Musicalmente però si aggiungono tutti gli strumenti che accompagnavano le strofe precedenti (tastiere e nacchere).
    È un salto brusco, che ci riporta alla prima riflessione, al primo enigma, come un pensiero che ritorna ciclicamente.

    Fra la prima e la seconda parte della canzone viene ripetuta l'introduzione con l'aggiunta del basso e l'esclusione dei tom (rientrano solo alla conclusione dell'intro per agganciarsi al ritmo della strofa successiva).

    strofe VI-VII
    Altri timori nei confronti del padre. La paura del buio, metafora di ciò che non si conosce, di ciò che ancora bisogna scoprire con l'esperienza. Ma nei confronti del padre si ha anche vergogna di aver paura, di dimostrarsi non all'altezza. Allora il bambino cerca di spaventare la paura e di nascondersi da essa (le ho mostrato il coltello e la mia maschera di gelso). La VII strofa è la ripetizione della IV, poiché la reazione è sempre la stessa.
    Suggestiva l'introduzione del bansuri (strumento a fiato di legno di origine africana) subito dopo la parola "ombra". Questo strumento si aggiungerà nell'orchestrazione per tutto il resto della canzone.

    strofe VIII-XI
    Le strofe che seguono sono la ripetizione della V(I), della III e della II, e per ultima gli ultimi due versi della V(I), anche se vengono percepiti forse come primo e ultimo verso e omissione dei 5 centrali. I pensieri si confondono, i ricordi si mischiano e ritorna a galla il presente con quella ripetizione quasi ossessiva del monito iniziale "mastica e sputa".


    Riflessioni e approfondimenti.
    Il contesto biografico e la genesi della canzone


    Le canzoni di De André non parlano mai di ovvietà. Anche il tema dell'amore, banalizzato ed abusato in tutta la musica leggera, non viene mai trattato con leggerezza (si pensi ad Amore che vieni, amore che vai e soprattutto a Verranno a chiederti del nostro amore). La comprensione dei testi della prima produzione è piuttosto semplice; più complicata è la riflessione, per chi voglia farla, sui contenuti. Dopo l'esperienza con Francesco De Gregori (Volume 8, 1975) il linguaggio poetico si fa molto più ermetico, sovente un solo ascolto non è sufficiente alla comprensione ed alcuni passi prevedono volutamente più interpretazioni (si pensi ad esempio a La Domenica delle salme). Tornano utili in questi casi le interviste o le testimonianze riportate dell'autore stesso o da chi gli era molto vicino. Conoscendo questi documenti tante volte scompaiono del tutto le difficoltà. Non so se questo è un elemento a vantaggio o a svantaggio della poetica di De Andrè. Dico una banalità affermando che molti poeti hanno scritto volutamente in modo da stimolare più interpretazioni. Semplicemente di De André spesso abbiamo la chiave per risolvere certi enigmi. Forse in alcuni casi lui avrebbe preferito rimanere ermetico. Sicuramente così viene soddisfatta la curiosità dei critici, a scapito però della bellezza, quella bellezza che non richiede una spiegazione.
    Dopo aver ascoltato la canzone di sicuro ciascuno è portato a riflettere sul significato della prima strofa. "Mastica e sputa / da una parte il miele... dall'altra la cera..." Distinguere cioè il dolce della vita da ciò che non lo è. Scegliere solamente il buono, scartare il cattivo, prima che venga neve, prima che si invecchi. Ma dire buono o cattivo, brutto o bello è troppo semplificativo, qualunquista. Distinguere implica una scelta e una scelta implica saper scegliere. Sapere è conoscenza, la conoscenza è data dall'esperienza maturata durante il cammino di un'esistenza. Perciò distinguere, saper distinguere, è anche afferrare solamente ciò che è necessario, che è la parte più piccola di ciò che si ha a disposizione.
    Questo penso sia il significato della strofa, nonché il messaggio dell'intera canzone.
    Durante un concerto, il 14 febbraio del 2000 a Perugia, Ivano Fossati, coautore della canzone, raccontò che mentre lavoravano al disco lui e Fabrizio stavano girando il Sud e vicino a Matera notarono dei vecchi che masticavano il favo per separare la cera dal miele. Da quell'immagine nacque la canzone, in poco più di 40 minuti. Ecco spiegata l'origine di questa strofa. Non un'invenzione dal nulla bensì una tradizione secolare delle vecchie apicoltrici lucane. Interessante di sicuro, non fondamentale nella comprensione, anzi, per certi aspetti fuorviante. Ritenere che la strofa sia un puro virtuosismo intellettuale che solo pochissimi potrebbero cogliere riporta il tutto ad una dimensione materiale che non si addice alla canzone. Semmai è interessante constatare che un'usanza secolare sia stata il seme di una riflessione sulla vita fino a trasformarsi in metafora.
    Indagando nella vicenda biografica di De André scopriamo poi che quella visione contadina ha risvegliato in lui i ricordi di quando viveva a in Piemonte.
    De Andrè nacque a Genova nel 1940, durante gli ultimi anni della guerra la sua famiglia fu costretta a trasferirsi nella casa di campagna di Revignano d'Asti. In questo ambiente Fabrizio ebbe il suo primo contatto con il mondo contadino e la natura ed ebbe come compagna di giochi Nina Manfieri, a cui la canzone è appunto dedicata.
    Ho visto Nina volare è quindi impregnata di ricordi personali ed esperienze presenti. Ma non vi è nulla che riveli questo. L'Io che canta è un io generico e Nina è un simbolo, è la prima persona che ha destato in noi sentimenti d'amore a livello embrionale, sentimenti istintivi che fanno parte della natura più profonda e insondabile dell'uomo.
    L'isolamento in questo caso è dovuto al rapporto conflittuale con l'autorità paterna. Il padre è l'adulto che il bambino vede come un ostacolo ai suoi sentimenti non compresi, e allo stesso tempo una figura di riferimento, una meta, il simbolo del superamento dell'età infantile. L'adulto non teme il buio e il bambino cerca di mascherare la sua paura, illudendosi di aver vinto, di essere cresciuto. Il coltello e la maschera appartengono rispettivamente al mondo adulto e al mondo infantile. Il fatto che siano usati contemporaneamente simboleggia il conflitto interiore, la lotta tesa alla crescita.
    Una curiosità: perché proprio di gelso la maschera? Forse non c'è una spiegazione logica, ma semplicemente metrico-musicale. Ad ogni modo c'è un detto sardo (e si sa la familiarità che De André aveva con questa lingua) che dice: "Foza 'e murichesse - chie la fachet la pessat - Foza 'e neulache - chie la pessat la fachet" (Foglia di gelso - chi la fa la pensa - Foglia di oleandro - chi la pensa la fa). Il gelso è considerato nell'araldica simbolo di ponderatezza... chissà.


    Aspetti metrici-formali. L'incontro con la musica

    Come molta produzione di De André anche questa poesia è costruita con versi piuttosto irregolari. Si va dal quinario al novenario, con una predominanza di settenari. L'uso della rima e dell'assonanza è sporadico e irregolare, se si esclude la prima strofa dove la rima alternata è data dalla ripetizione del primo verso dopo il secondo e il quarto. Nella seconda strofa ad esempio vi è un'assonanza fra il primo e il terzo verso (lontana - mano), nella terza una rima fra secondo e quarto (altalena-schiena), nella quarta un'assonanza fra primo e quarto verso (padre-mare).
    Fra struttura metrica e intonazione vi sono alcune divergenze. Alcuni versi funzionano ritmicamente meglio nella versione cantata, altri conservano la loro musicalità anche se letti semplicemente, ma subiscono delle modifiche sostanziali e altrettanto funzionali quando vengono intonati. Vediamo nel dettaglio.

    I strofa
    Mastica e sputa
    da una parte il miele
    mastica e sputa
    dall'altra la cera
    mastica e sputa
    prima che venga neve
    Sestina di quinari e senari più un settenario.
    Il primo verso è un quinario con accento sulla prima e sulla quarta sillaba (andamento dittilo-trocaico).
    Musicalmente la resa è identica.
    Il secondo e il quarto verso sono senari. L'accentuazione del secondo è particolare. Leggendo (daˆuna parteˆil miele) gli accenti più naturali sono sulla terza e la quinta sillaba. Quindi non ha né un andamento anfibraco né trocaico. Forse quello trocaico si potrebbe adattare (dàˆuna pàrteˆil mièle) ma risulta comunque troppo forzato. Musicalmente avviene qualcosa di simile: la terza e la quinta sillaba conservano l'accento, la prima, seppur in levare, porta un accento molto debole, un leggero appoggio della voce. Una spiegazione potrebbe essere data dal fatto che se si unisce il primo al secondo verso si ottiene un endecasillabo a minore. Ma il testo originale presenta questa divisione. Musicalmente si potrebbero percepire non due versi ma due emistichi.
    Il quarto verso è più canonico, ha cioè un andamento metrico e musicale simile all'anfibraco (dall'àltra la cèra).
    L'ultimo verso è un settenario ad andamento dattilico-trocaico (prìma che vènga nève).

    II strofa
    Luce luce lontana
    più bassa delle stelle
    sarà la stessa mano
    che ti accende e ti spegne
    Quartina di settenari dall'accentuazione variabile.
    I. trocaico-dattilico (Lùce lùce lontana)
    II. giambico-catalettico (più bàssa dèlle stèlle)
    III. giambico-catalettico (sarà la stèssa màno)
    IV. anapestico-catalettico (che tiˆaccèndeˆè ti spègne)
    Da notare solamente nell'ultimo un addolcimento degli accenti nella prima parte del verso.
    L'intonazione rende molto fluide le sillabe, rendendole quasi di uguale durata.

    III strofa
    Ho visto Nina volare
    tra le corde dell'altalena
    un giorno la prenderò
    come fa il vento alla schiena
    Quartina mista (tre ottonari, I, III e IV e un novenario).
    I. Ottonario dall'accentazione singolare. Non è presente l'accento di terza bensì il ritmo poetico e musicale è giambico - anapestico (Ho vìsto Nìna volàre)
    II. Novenario, metricamente non correttissimo. L'accento cade sulla terza e la penultima sillaba, e leggendo un accento debole potrebbe essere sulla quinta, ma il ritmo anapesticogiambico sarebbe una forzatura. Nell'intonazione oltre agli accenti di terza e penultima si aggiunge un lievissimo accento sulla sesta. Non so se sia voluto o casuale, o semplicemente una mia impressione, ma quest'accentazione irregolare porta velocemente dalla sillaba co di corde alla sillaba le di altalena, quasi ad imitare il movimento dall'alto al basso e poi ancora verso l'alto della giostra.
    III. Ottonario tronco. Accenti sulla seconda, quinta e ultima sillaba, non molto usuali.
    IV. Interessante quest'ultimo verso. E' un ottonario (còme faˆil vèntoˆalla schièna) molto bello.
    Il ritmo suggerisce qualcosa di ondulato come la schiena e il movimento del vento.
    Nell'intonazione però l'accentazione non è così. Il primo accento è eliminato e l'ultimo reso molto debole dal prolungamento dell'ultima vocale a. Ciononostante l'idea di qualcosa di sfuggevole è mantenuto dall'intonazione, dal glissato sulla a che conduce direttamente alla quarta strofa. Non saprei quale di questi due espedienti sia il più efficace. Di sicuro musicalmente è più suggestivo l'ultimo.

    IV strofa
    E se lo sa mio padre
    dovrò cambiar paese
    se mio padre lo sa
    mi imbarcherò sul mare
    Quartina di settenari.
    I. Andamento trocaico catalettico. Nell'intonazione si viene a creare una sinafia con il verso precedente.
    II. Stesso ritmo del precedente
    III. Ritmo contrastante anapestico. Il verso è tronco
    IV. Ritmo trocaico-catalettico.

    V strofa = I strofa

    VI strofa
    Stanotte è venuta l'ombra
    l'ombra che mi fa il verso
    le ho mostrato il coltello
    e la mia maschera di gelso
    Quartina mista.
    I. Ottonario ancora dall'accentazione insolita che si riflette anche musicalmente pur mantenendo totale naturalezza. (Stanòtteˆè venùta l'òmbra). Il ritmo scorre verso la parola ombra che viene ripetuta nel verso successivo. Poichè l'accento in questo caso cade sulla prima sillaba il ritmo sottolinea chiaramente l'immagine che diventa centrale nella strofa.
    II. Settenario. Anche in questo caso l'accentazione è singolare. Sia nella lettura che nell'intonazione gli accenti più naturali cadono sulla prima la quinta e la sesta sillaba (l'òmbra che mi fàˆil vèrso). Il ritmo di questi due versi tende a sfuggire verso la penultima sillaba. La melodia del secondo comincia in battere anziché in levare come in passi simili (secondo verso terza strofa) venendosi a creare una pausa alla fine del primo. Il risultato è una sensazione di incertezza sottolineata dall'entrata improvvisa del bansuri, come se un'ombra apparisse e scomparisse all'improvviso.
    III. Settenario. Ritmo anapestico-catalettico(leˆho mostràtoˆil coltèllo)
    IV. Novenario. Accentazione irregolare. Il ritmo si chiarisce se consideriamo una sinafia con il verso precedente (coltelloˆe la mia màschera di gèlso). Nell'intonazione un lievissimo accento è posto sulla sillaba "ra" di maschera.

    Una considerazione sulla X strofa.
    La ripetizione delle strofe non è invariata anche dal punto di vista melodico. Vi è un passo, che fa quasi rabbrividire, simile ad un madrigalismo. Al secondo verso della strofa, sulla parola spegne la voce fa un salto di ottava discendente (Do2-Do1). Descrivere a parole è inutile, però in questo punto cala veramente la notte.


    Considerazioni

    Proprio in virtù di queste discrepanze metriche fra lettura e intonazione (in genere tese a migliorare e rendere naturale il ritmo) sarebbe interessante capire in quale fase il testo sia stato composto: se adattato ad una melodia, oppure composto prima o contemporaneamente.
    Nella maggior parte della sua produzione De André si è concentrato soprattutto sul testo. Quindi la stesura letteraria precedeva quella musicale. Di sicuro non sempre in modo libero, ma con un'idea melodica o ritmica di base in mente. Il lavoro di lima e di studio sul testo comunque occupava la prima e la più cospicua parte del lavoro.
    Con grande umiltà e intelligenza il cantautore ha affidato quasi sempre gli arrangiamenti a musicisti più competenti di lui, sempre però mantenendo il totale controllo della creazione. Le ricerche musicali non sono state semplicemente delegate ad altri ma seguite passo a passo. Gli arrangiamenti di questo disco sono di Piero Milesi e Cristiano De André, su strutture e idee musicali di De André e Fossati, e può essere che, dato il taglio di alcune canzoni, l'intervento musicale di Fossati sia stato significativo. Come dicevo resta ancora da indagare nel dettaglio in che termini si svolgessero queste collaborazioni. Dove finiva il lavoro dell'uno e cominciava quello dell'altro? Fatto è che De André, ammettendo i propri limiti strettamente musicali, aveva idee molto chiare sul risultato e la continua ricerca di nuovi collaboratori è sintomatica. Anche negli ultimi concerti gli arrangiamenti erano stati preparati con molta cura e De André era molto esigente. Attorno a lui ruotava la resa artistica. Se nei concerti degli anni '70 con i New Trolls o la PFM molto era lasciato all'improvvisazione, dovuta anche alla provenienza Rock dei musicisti, in quelli degli ultimi anni c'è invece una tendenza alla ricerca della perfezione per ottenere in ogni concerto l'identico risultato. Poche idee ma fisse…
    Prendiamo in considerazione il brano qui analizzato. Come già ho detto sopra la strumentazione non si discosta molto dalle prime canzoni degli anni '60. Ma è evidente l'affinamento dei mezzi tecnici, dell'uso della voce, della padronanza del verso che si materializza però più nell'intonazione che sulla carta. Notevole è anche il gioco di incastri ritmici che si viene a creare fra l'accompagnamento della chitarra e il ritmo della melodia. Come spesso accade per grandi artisti un uso studiatissimo dei mezzi porta ad un risultato di sorprendente semplicità.
    Tornano in mente le parole di De André quando affermava: "Benedetto Croce diceva che, fino all'età di diciotto anni, tutti scrivono poesie; dai diciotto in poi rimangono a scriverle solo due categorie di persone:i poeti e i cretini. Quindi io, precauzionalmente, preferirei considerarmi un cantautore."
    Gli do ragione, fino ad un certo punto. Ho visto Nina volare, soprattutto per certi aspetti metrico-musicali assume la sua veste migliore se cantata e se cantata dalla sua voce. Altri testi, a mio parere, come Il testamento di Tito, possono fare anche a meno della musica, ed avere dignità di poesia pura.

    [Marco Gaggini. Questo saggio, pubblicato col consenso dell'amico autore (che ringrazio vivamente), era originariamente una tesi elaborata per un esame di "Storia della poesia per musica", sostenuto nel 2008 e relativo al terzo anno del corso di Musicologia]


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    Una tradizione della città di Matera, oggi purtroppo già estinta, vede da oltre due secoli, le donne più anziane dedite all'antico mestiere dell'apicultura. Sembra che usassero masticare fettine di favo, all'uopo preparate, per ore ed ore, ottenendo in tal modo la separazione del miele dalla cera. Queste due preziose sostanze venivano quindi espulse dalla bocca in appositi recipienti, e quindi, pronte per l'uso.
    Questa storia mi è arrivata direttamente da Ivano Fossati quando, ad un concerto di vari anni fa, ha introdotto la canzone "Ho visto Nina Volare", scritta insieme a Fabrizio De André.
    È stata una vera e propria rivelazione. Lo stesso Fossati mi ha confessato di essere stato letteralmente rapito da quella terra e di avervi soggiornato a lungo, con Fabrizio, per alimentare il fiume di poesia portato da quegli enormi affluenti che sono le tradizioni orali di quel posto.
    È singolare e nello stesso tempo intuitivo come in questa leggenda siano reciprocamente intrecciate la vicenda religiosa, come il rito della comunione, insieme ad una pratica di accrescimento ancestrale, quale quella del pasto collettivo. E lo studio del comportamento dell'uomo spesso ci ha tramandato che, a tali "comunioni", prendono parte prevalentemente i soggetti che non presiedono alla difesa del territorio e che non vanno a caccia: le donne. Trattandosi poi di un rito molto importante per la sopravvivenza, sono le donne più anziane che ne assumono la piena responsabilità di svolgimento. Ma fra i famosi "Sassi", gli adulti invecchiano e scompaiono, i giovani nascono e crescono, ed anche se gli individui cambiano tutti, mi piace immaginare questo convoglio di umanità rimanere insieme e uguale a se stesso, sotto il peso dei cunicoli di masse lente, su viottoli serpiginosi capaci di dar direzione agli uomini, agli asini, alle acque e agli spiriti… E nelle grotte e intorno al fuoco che sembra accendere le danze degli spiriti dell'ombra, una bimba, rapita dal gioco delle fiammelle, guarda la nonna che:
    mastica e sputa da una parte il miele
    mastica e sputa dall'altra la cera
    mastica e sputa prima che faccia neve
    Questo il sogno reiterato, à poussées, quasi un refrain, delle mie notti sui Sassi, fra strade di cenere come un pianto asciutto, piatte ed ondulate, con andamento di fiume tra muri alti di calcio e balconate di tufo che tradiscono il vuoto.
    Non c'è rumore che possa svegliarmi, né luce tenue che come collirio possa levigare le ferite dei muri stesi come lenzuola materne anche per un estraneo come me.
    Di grotta in grotta sono un re forestiero sulla rupe dell'arnia, sono l'ape ceraiola della Gravina, fino al fondo dell'imbuto, dove il vento cade solo a spruzzi, sui cespugli di malerba bagnata. Oltre il disordine del mondo sento il mio passo più sicuro dentro questo sogno.
    [Carlo Bonanni. Lo scritto, curioso e suggestivo, mi è giunto via e-mail ed è pubblicato col gentile consenso dell'autore, che fra l'altro è un ottimo interprete delle canzoni di Fabrizio.]


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    L'isolamento del protagonista di Ho visto Nina volare deriva dall'incomprensione del padre verso il figlio e dall'impossibilità di esprimere il proprio sentimento per Nina. Visioni infantili mescolano realtà e fantasia dell'amore segreto e furtivo del bambino che, se oggi è costretto a guardare Nina volare tra le corde dell’altlena, sa che un giorno la prenderà come fa il vento alla schiena.
    La reiterazione della frase mastica e sputa da una parte il miele, mastica e sputa dall'altra la cera, sembra rappresentare l'andamento faticoso della vita: come api operaie è necessario costruire passo dopo passo le proprie esperienze prima che venga neve.
    [Matteo Borsani – Luca Maciacchini, Anima salva, Tre Lune, Mantova, 1999, p. 163]


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    Il contrasto dell'autorità, in questo caso quella paterna, nei confronti dei desideri del giovane contadino protagonista di Ho visto Nina volare, determina in lui una condizione di isolamento e di totale abbandono: eppure si tratta di desideri più che normali che si esternano nel semplice tentativo di assomigliare a se stessi, come gli attori di Prinçesa, di Le acciughe fanno il pallone o di Khorakhané. In questo caso il desiderio di diventare adulto, che trova ostacolo nella paura dell'autorità del padre, si risolve in un primo momento nella determinazione dell'adolescente a fuggire per recuperare da solo il proprio diritto a diventare adulto e in seguito si sublima in quella solitudine che lo mette a contatto con l'Assoluto nel contemplare il mistero della creazione: "quale sarà la mano che illumina le stelle". Anche in questo caso la situazione di isolamento, di estraneazione dall'altro, produce una crescita, una maturazione spirituale che si può ottenere trasformando l’apparente disagio dell'abbandono in una libera e statica contemplazione.
    [Doriano Fasoli, Fabrizio De André. Passaggi di tempo, p. 77]