• Mileto fu distrutta dai persiani nel 494 a.C., ma l'eco della filosofia si era ormai diffusa nelle più giovani colonie della Magna Grecia, cioè sulle coste dell'Italia meridionale, e precisamente a Crotone, in Calabria, dove infatti troviamo Pitagora di Samo (circa 570-490 a.C.), al quale, come ogni alunno sa, viene attribuito (ma forse erroneamente) il famoso teorema che porta il suo nome: "In ogni triangolo rettangolo, il quadrato costruito sull'ipotenusa è equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui cateti". Pitagora in realtà andò ben oltre, affermando che tutto è fatto di numeri: tutto, infatti, è misurabile ed enumerabile; e questa constatazione lo indusse a identificare l'arché dell'universo con il numero. Inoltre credeva in una forma di estrema reincarnazione, convinto che una grande varietà di oggetti come i cespugli e le fave avessero un'anima: la qual cosa rese problematica la sua dieta e fu indirettamente responsabile della sua bizzarra morte. Infatti Pitagora fu vittima del suo vegetarianismo oltranzista: inseguito da un gruppo di clienti insoddisfatti, giunse in un campo di fave e, piuttosto che calpestarle sdraiandocisi in mezzo, preferì rimanere in piedi e farsi uccidere.




    Sempre in Magna Grecia, ad Elea in Campania, troviamo Parmenide (VI-V sec. a.C.), il quale sostenne che tutte le cose sono costituite di una sola sostanza; anzi, che in realtà esiste una sola sostanza, che egli chiamò essere. L'essere di Parmenide è quindi unico, eterno, immutabile. E tutte le apparenze di varietà, moto, differenziazione dei fenomeni ecc. sono illusorie... Per rendere credibili affermazioni del genere, Parmenide fece ricorso a due princìpi complementari:

    1. il principio di identità, secondo cui l'essere è e il non-essere non è;
    2. il principio di non-contraddizione, secondo il quale è impossibile che l'essere non sia e che il non-essere sia.




    La contrapposizione tra essere e non-essere scaturisce da quella esistente tra pensiero e sensi. Nel suo poema Sulla natura (quasi tutti i trattati di allora si intitolavano così) Parmenide afferma che il primo conduce alla verità (alétheia), i secondi all'opinione (doxa). Un frammento dice:

    infatti lo stesso è il pensare e l'essere.

    Questa fede così radicata nel pensiero, cioè nella ragione umana, viene chiamata razionalismo: un razionalista è, dunque, chi crede che la ragione umana sia la fonte del nostro sapere sul mondo.

    Amico e discepolo di Parmenide fu Zenone (sec. V a.C.), anch'egli nativo di Elea, per il quale la cosa più importante fu dimostrare vera l'idea dell'immobilità dell'essere sostenuta dal suo maestro. Nonostante qualcuno lo prendesse in giro camminandogli davanti (stoltamente identificandosi con l'essere), egli difese tale ipotesi mediante sottilissime aporie, con le quali cercò di dimostrare che il movimento e la molteplicità sono molto più assurde dello statico monismo del maestro.
    La più nota delle sue aporie è quella riguardante Achille e la tartaruga. In essa si sostiene che il veloce guerriero non potrà mai raggiungere il simpatico ma lento animale poiché, essendo lo spazio divisibile all'infinito, ne consegue che mentre l'eroe raggiunge il punto in cui si trovava la tartaruga, questa ha già compiuto un certo percorso, e così via, appunto, all'infinito... Con questa ed altre dimostrazioni consimili, Zenone è ancor oggi celebrato per la sua logica!




    A Parmenide si contrappose Eraclito di Efeso (circa 550-480 a.C.), il quale sostenne una tesi diametralmente opposta: e cioè che i sensi costituiscono la fonte essenziale del sapere (questa posizione viene detta empirismo).
    Ebbene, i sensi attestano che tutto è in movimento e nulla dura in eterno. Anzi, il divenire è così rapido e incessante che, da un lato, Eraclito pensò di scegliere a suo simbolo il fuoco, e, dall'altro, affermò che non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume... Con ciò non dobbiamo pensare di cambiare nome al Sesia ogni volta che in esso ci tuffiamo: l'affermazione vuol dire soltanto che, essendo le acque di un fiume in costante movimento, la sua configurazione di oggi non può essere uguale a quella di ieri. Insomma il fiume rappresenta la realtà (che è la stessa al di là di ogni configurazione), e le sue acque ne costituiscono il divenire (cioè il suo continuo cambiamento).
    Eraclito compendiò le sue riflessioni nel celebre motto:

    tutto scorre,

    che appunto lo pone agli antipodi della concezione parmenidea di una realtà unica e immutabile...

    Il problema dei filosofi successivi fu quello di conciliare le opposte dottrine di Eraclito (empirismo) e Parmenide (razionalismo). Ad essi parve infatti che entrambi avessero ragione: nel senso che da un lato, cioè sul piano dei sensi e dell'esperienza, constatavano il fatto che le cose sono molteplici e divengono; ma d'altra parte, ovvero sulla base della ragione e del principio di non-contraddizione, ritenevano che la realtà dovesse avere le caratteristiche di unicità e immutabilità indicate da Parmenide...




    Il primo ad impegnarsi in questo arduo compito fu Empedocle di Agrigento (V secolo a.C.), il quale ritenne di poter affermare insieme l'eternità dell'essere e il divenire del mondo, intendendo l'essere in modo pluralistico, cioè come un insieme di elementi originari eterni (le quattro radici: acqua, terra, aria e fuoco) che, unendosi e separandosi, provocherebbero di volta in volta la vita e la morte delle varie cose reali e divenienti. O forse diremmo meglio il loro apparire e scomparire: per Empedocle infatti, non essendoci vera e propria generazione di singole cose, non può esservi nemmeno la loro morte. La natura, secondo lui, conosce solo composizione e scomposizione di elementi che restano eterni.
    Secondo Empedocle, a determinare la mescolanza e la separazione degli eterni elementi dell'essere sarebbero due forze esterne all'essere stesso, che egli chiamò Amore (o Amicizia) e Odio (o Discordia). Ma proprio in quest'ultimo aspetto sta il difetto principale della teoria di Empedocle, in quanto tali forze non appartengono all'essere stesso, che in tal modo non è più causa del mondo...




    Un altro filosofo che considerò insoddisfacente l'affermazione che un solo elemento può trasformarsi in tutto quello che esiste in natura fu Anassàgora di Clazomene (circa 496-428 a.C.), che avanzò una soluzione affine a quella di Empedocle (pluralismo). A differenza di quest'ultimo, però, sostenne che il numero degli elementi eterni è infinito. Egli chiamò tali elementi omeomerìe ("parti simili") o semi, cioè particelle invisibili di materia, distinte per qualità e quantità.
    In ogni cosa, secondo Anassagora, prevalgono le omeomerie tipiche della cosa stessa, anche se vi è sempre una piccola parte formata dalla omeomerie di tutte le altre qualità: per questo egli disse che "tutto è in tutto"...
    Anche per Anassagora il processo di aggregazione e disgregazione degli elementi originari è regolato da una forza esterna, che egli chiama Nous, cioè un intelletto divino che ha valore analogo alle due forze empedoclee, e delle quali condivide perciò i difetti.




    Al pari di Anassagora ed Empedocle, anche gli atomisti, il cui massimo esponente fu Democrito di Abdera (460-370 a.C.), cercarono di mediare l'essere immutabile di Parmenide col divenire di Eraclito. Con tale intento sostennero che tutto ciò che esiste è formato da atomi, ovvero particelle indivisibili che differiscono tra loro non per qualità ma solo per aspetti quantitativi (grandezza, forma, peso). Questa ipotesi va ponderata con molta accortezza, poiché essa è alla base di una concezione che, pur se implicita nella visione di Empedocle e Anassagora, fu da costoro occultata e contraddetta in quanto gli elementi da essi scelti, come abbiamo detto, erano mossi da una forza esterna che, producendo gli enti, rimaneva eterna.
    La soluzione atomistica è più coerente, in quanto l'unificazione e la separazione degli atomi (che danno luogo alla nascita e alla morte degli enti) non sono dovute all'intervento di una forza esterna, bensì al moto stesso degli atomi che, urtandosi, originano nuovi urti e nuovi movimenti, in un ciclo perenne che costituisce appunto il divenire del mondo.
    Con Democrito abbiamo dunque la prima concezione materialistica della storia della filosofia. Tuttavia, nemmeno la soluzione atomistica può definirsi davvero convincente, in quanto (come le radici di Empedocle e le omemomerie di Anassagora) nemmeno gli atomi sono davvero soggetti al divenire, ma sono e restano ciò-che-sono; il divenire non è dunque un mutamento effettivo (qualitativo) dell'essere, ma un semplice mutamento di quantità e di luogo dei suoi elementi.
    La tesi parmenidea dell'unicità e immutabilità dell'essere non sembrava scalfita...

    Tanto rumore per nulla, dunque?
    In realtà, l'antinomia tra ragione ed esperienza suscitata dal pensiero di Parmenide, e il fallimento dei tentativi compiuti per risolverla, portarono in primo piano la domanda sulla capacità dell'uomo di raggiungere la verità. A porsi tale domanda furono i cosiddetti sofisti (parola che significa "sapienti", ma che in seguito assumerà un valore critico o addirittura dispregiativo), i quali concentrarono la loro attenzione appunto sul valore (cioè sulle potenzialità e sui limiti) della conoscenza umana. In termini tecnici, possiamo dire che il problema gnoseologico (conoscitivo) si sostituì al problema metafisico (riguardante un'ipotetica essenza intima della realtà) che aveva caratterizzato il pensiero precedente.




    Constatando il disaccordo insanabile dei filosofi precedenti, i sofisti conclusero semplicemente che la verità in sé non esiste ma è relativa a ciascun individuo. Questa concezione, che potremmo definire pirandelliana ante litteram, viene detta relativismo ed è compendiata in un celebre motto di Protagora di Abdera (circa 490-410 a.C.):

    L'uomo è misura di tutte le cose.

    Si noterà facilmente come la concezione di Protagora si trovi agli antipodi della logica parmenidea, fondata sul principio di non-contraddizione e, quindi, sull'idea di una verità assoluta. In questo modo tutto salta: in un suo dialogo Platone farà pronunciare ad un certo Trasimaco (retore del V sec.) una lezione di crudo realismo politico: la giustizia - fa dire a Trasimaco - non è altro che l'utile del più forte. La legge dunque, in mancanza di validi criteri di verità, legalizza la sopraffazione. Insomma, nella prospettiva di Protagora, la verità risulta vincolata alla prassi, all'azione, per cui è vero ciò che risulta, di volta in volta, più utile ed efficace.




    Il pensiero di Protagora venne poi radicalizzato dall'altro grande esponente della sofistica, Gorgia da Lentini (circa 485-379 a.C.), la cui dottrina più nota è espressa in tre tesi connesse tra loro:

    Nulla esiste; se poi esiste è inconoscibile; se poi anche esiste ed è conoscibile, è inesprimibile.

    Queste dichiarazioni apparentemente paradossali hanno in realtà un senso molto serio e profondo. In sede generale, il senso di questa concezione sta nella differenziazione tra realtà, conoscenza e linguaggio (contro l'indistinzione di queste tre dimensioni presente nella filosofia precedente). In sede più analitica, invece, possiamo notare che le prime due proposizioni si contrappongono radicalmente alla concezione di Parmenide: da un lato esse negano che l'essere possa essere affermato con certezza e, dall'altro, che essere e pensiero coincidano. La terza tesi, infine, sostiene l'indipendenza del linguaggio dalla realtà e dal pensiero, tanto che esso può enunciare qualsiasi cosa, vanificando la possibilità di distinguere il vero dal falso.

    Fra i cosiddetti "grandi sofisti" vanno annoverati inoltre Prodico di Ceo (circa 460 a.C.–380 a.C.) e Ippia di Elide (circa 443–380 a.C.), mentre fra i sofisti della seconda generazione occorre ricordare gli eristi, come Eutidemo, Dionisodoro ed Eubulide di Mileto, perché ad essi in particolare è imputabile l'usuale concezione negativa della figura del sofista. L'eristica (dal greco erìzein="battagliare") non si preoccupa di stabilire se un discorso possa essere vero o falso: il suo unico scopo è confutare il proprio avversario mediante la retorica. Gli eristi si vantavano appunto di poter confutare qualsiasi affermazione.