COMMENTO
Che amore è mai quello cantato da Pierro ne I 'nammurète? Dove nasce? Come cresce? Perché muore? Senza mbienti reali definiti, senza un'ubicazione precisa o evidenze locali, dove si svolge? Il fascino di quest'amore sta anche e soprattutto nella sua indeterminatezza, nel suo essere senza limiti, nella sua atemporalità, e al tempo stesso nella sua potenza rappresentativa e leggendaria narrabilità. Anche per questo, forse proprio per questo, la sua effabilità può prescindere da diretti riferimenti biografici. Deferiti alla poesia, questi si scarnificano, si essenzializzano in oggetti e gesti emblematici. Così, prendendo in considerazione altri testi della raccolta, a donna è vista in sogno (L'angiuuìcche, p. 19); il vento è asservito alla raffigurazione dell'amore lontano (Avin' 'a ièsse i morte, pp- 20-21); l'arrivo dell'amore è invece rapportato al fuoco, elemente generativo in senso, si direbbe, eracliteo (Trasiste com'u foche, p. 23); e persino la natura si rinnova alrisveglio dell'amore se l'erba rinasce sui muri (Si nu iurne turnèrese). L'oggettività è dunque assunta a significazione dell'esistenza psichica ed emotiva del soggetto. Le parole stesse, infine, hanno o presumono avere una prerogativa di riappropriazione del trascorrente, come dimostra la prima lirica del volume, dedicatoria anch'essa (ma questa volta in via più ristretta) come già era avvenuto per le precedenti raccolte dialettali:
"Si mòre apprime di te
o quanne sème luntène
liggìlle tutt'i sere stu librètte
e come fusse iè ca ti vasèje
po stringiatèlle 'npètte"
("Se muoio prima di te
o quando siamo lontani,
questo libretto leggilo ogni sera
e poi, come se fossi io a baciarti,
stringilo al petto.
È una spia di sensitività retrattile, in cui l'amore è sentito come esperienza fondamentale dell'esistenza, quasi come il suo primum mobile. Per sottolinearne anzi il potere condizionante, tale esperienza viene sottratta alle categorie di spazio e di tempo, limitative di ogni fatto umano: mediante questo procedimento si attua una trasfigurazione dell'individuale a fatto universale, una trasposizione dell'autobiografismo al mitologico.
Questa operazione è perfetta nella seconda poesia della raccolta, che a ragione l'ha anche intitolata. I 'nnammurète è una lirica di grande bellezza, tra i capolavori assoluti di Pierro e, a mio avviso, paragonabile (per restare in argomento) al miglior Prévert. Sin dall'inizio, la sua sillabazione è conforme alla tenerezza e ansietà delle immagini:
"Si guardàine citte
e senza fiète
i 'nnammurète".
Dal silenzio e dal nulla nasce questo amore, universale per essenza e non per ingegnosa trattazione. Perché anzi siamo ben lontani da programmi o finalità seconde. Nessun cliché. La parola stessa è nascita stupefacente come quella che sorge d'un tratto fra gli innamorati simile all'erbna "che trovi incastrata in un mjuro". Ed è parola trepidante nel suo timore d'infrangere l'incanto, parola fuggevole come
"una cosa sognata
che la senti la notte e che ritorna
più debole nella giornata.
Non è una storia, ma "una soavissima rappresentazione dello staso amoroso" (Figurelli). E difatti non i due innamorati, ma il "miracolo" dell'amore è il vero protagonista di questo canto. Celato dalla presenza degli innamorati, esso appare, fulgido, improvvisamente, nella
parte centrale della lirica, chiaramente ravvisabile in quella "luce di mezzogiorno" che invita a sognare, a tenersi per mano. E adesso sì, i due innamorati vengono presi per un momento dal desiderio di concupiscenza, perfettamente reso dalla rapinosa scrittura dei versi in cui il desiderio è rappresentato dall'iterazione del verbo "potere":
mo si putìna stinge
si putìna vasè
si putìna 'ntriccè come nd'u foche
i vampe e co'i pacce
putìna chiange, rire e suspirè;
ma nun fècere nente"
("Adesso si potevano stringere
potevano baciarsi
potevano unirsi come nel fuoro
le fiamme e come i pazzi
potevano piangere, ridere e sospirare;
ma non fecero niente").
All'improvviso i due innamorati sono colti come dalla paura di contaminarsi, addirittura di "scomparire toccandosi col fiato", come due bolle di sapone, consci della cenere che resta dopo il fuoco.
Adesso dove sono?, si chiede il poeta. Son sempre uniti o il destino li ha voluti separati? Dal nulla al nulla, sono stati reali o semplice e fugace apparizione? Verità o mito? L'incertezza riguardo al loro destino empirico è forse la prova (o il suggerimento) di un amocre così perfetto, di esseri così puri. La stessa esclamazione finale del poeta: "nun mbogghia Ddie / ca si fècere zang nmenz' 'a vita" ("non voglia Dio / che siano diventati fango nella strada"), è ancora timore, trepidazione per l'incanto di quest'amore davvero fermato "in un acerbo sogno di adolescente".
NOTA. Commento di G. Savarese, tratto da Albino Pierro, in I contemporanei, vol. V, Marzorati, Milano 1974, p. 933.
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