• Le dispute religiose appassionarono i filosofi per tutto il Medioevo, ma a partire dal XV secolo vennero gradualmente affermandosi alcuni grandi movimenti che contrassegnarono il periodo di transizione che va dal declino delle concezioni medievali alla nascita della filosofia moderna. Con l'Umanesimo prima, e col Rinascimento poi, si verificò infatti un risveglio dell'interesse per la cultura laica degli antichi: mentre la scena medievale era stata dominata da preoccupazioni riguardanti il problema di Dio, i nuovi pensatori posero nuovamente al centro degli studi l'uomo. E questo atteggiamento consentì grandi progressi nelle scienze fisiche e matematiche che, promuovendo un grande sviluppo tecnico, assicurarono alla civiltà occidentale una posizione dominante, quale ancor oggi possiamo riscontrare (nonostante da più parti, e proprio e soprattutto tra i filosofi, si parli di "tramonto dell'Occidente").
    Della massima importanza fu la scoperta della teoria eliocentrica (ch'era stata formulata per la prima volta da Aristarco di Samo nel III secolo a.C.) da parte di Copernico (1473-1543). La matematica e la fisica fecero poi grandi passi in avanti con Keplero (1571-1630), il nostro Galileo (1564-1642) e Newton (1642-1727).




    Sul piano strettamente filosofico, la nuova era si apre con la rinascita del platonismo, anche se filtrato da un'ottica neoplatonica, per cui l'atteggiamento mistico prevale su quello razionale.
    Il massimo esponente del platonismo quattrocentesco fu Nikolaus Khripffs (o Krebs), detto Cusano (1401-1464) dal luogo di nascita (Cusa, presso Treviri, in Germania). Ma accanto a lui bisogna almeno ricordare i nomi di Marsilio Ficino (1433-1499) e Pico della Mirandola (1463-1494).
    Dopo secoli di ambiziosi tentativi volti ad afferrare tutto ciò che esiste o di cui si può ipotizzare l'esistenza (dal filo d'erba all'anima, dall'uomo a Dio), Cusano si riporta direttamente al celebre motto socratico ("so di non sapere"), riducendo tutta la sapienza umana a una "dotta ignoranza", soprattutto se paragonata con l'essenza del divino. In effetti, secondo Cusano, soltanto in Dio le differenze che sussistono nella realtà finita si annullano: in Lui i contrari si conciliano e si regisra la coincidentia oppositorum. Perciò Cusano definisce Dio la "implicatio" dell'universo, mentre l'universo nella sua molteplicità è l'"explicatio" dell'unità divina. Notiamo per inciso che quest'ultima affermazione prelude al panteismo di Bruno, di cui diremo tra poco.

    Prima, infatti, occorre dire che se il Quattrocento viene associato alla rinascita del platonismo, il Cinquecento vede l'affermarsi del naturalismo, cioè dell'interesse centrato sul mondo naturale. In quest'ambito la prima personalità di spicco è quella di Bernardino Telsio (1509-1588), che può essere considerato il vero precursore della scienza moderna. La sua considerazione della natura "iuxta propria principia" (cioè secondo i propri princìpi) liberò infatti la ricerca speimentale da ogni presupposto teologico o metafisico. La base della conoscenza è pertanto la sensibilità: essa può avvenire "non ratione, sed sensu" (cioè, non razionalmente ma attraverso i sensi).




    A questa concezione si rifà Tommaso Campanella (1568-1639). Anche per lui, infatti, la sensibilità rappresenta il tipo fondamentale di conoscenza. Ma qui si arresta l'accordo con Telesio, poiché Campanella pone a base di ogni altra forma di conoscenza l'autocoscienza, cioè la conoscenza innata che l'anima ha di se stessa: quindi il sentire è prima di tutto coscienza di ciò che noi siamo. Affiora in tal modo quel soggettivismo che caratterizzerà gran parte del pensiero moderno, soprattutto a partire da Cartesio. Tuttavia questo innato senso di se stessi Campanella non lo attribuisce soltanto all'uomo, ma ad ogni altro ente naturale: per cui si parla di pampsichismo campanelliano.




    Ma pochi anni prima di Campanella, la filosofia rinascimentale aveva toccato il suo vertice con Giordano Bruno (1548-1600), il cui pensiero, oltre che dai motivi neoplatonici di Cusano, dipende in gran parte dall'adesione entusiastica alla teoria eliocentrica elaborata da Copernico (1473-1543).
    Identificando Dio col mondo, Bruno sostiene che tutta la realtà, e non soltanto l'uomo, è vivo e animato; insomma che il mondo è un unico "grande animale" (proprio nel senso che è dotato di un'anima). La rottura con l'ortodossia cristiana non poteva essere più drastica. E la sua drasticità si conferma con l'ammissione dell'infinità dell'universo. La nozione di finitezza, infatti, era sempe apparsa l'unica plausibile al fine di giustificare l'universo come creazione di Dio: nemmeno Copernico, che pur aveva avuto il merito di distruggere completamente la cosmologia aristotelica, aveva osato infrangere tale concezione. Bruno compie invece questo passo, proclamando che nell'universo tutto è centro e periferia, appunto perché esso è infinito. In tal modo egli applica all'universo quella coincidentia oppositorum che Cusano aveva attribuito soltanto a Dio. È pur vero che Bruno distingue in Dio due nature: una trascendente (mens super omnia) e una immanente (mens insita omnibus); ma è anche vero che egli afferma che causa, principio e mondo sono "uno", nel senso che Dio è inseparabile dai suoi effetti. E perciò si parla di panteismo. Per tutte queste idee Bruno venne dichiarato "eretico" dall'Inquisizione e il 17 febbraio del 1600 - avendo esplicitamente affermato "di non volersi pentire, di non avere niente di che pentirsi, e di non sapere di cosa pentirsi" - venne arso sul rogo in Campo dei Fiori, a Roma.




    L'età del Rinascimento fu anche il luogo di un'aspra battaglia per il rinnovamento della chiesa. Questo atteggiamento è presente innanzi tutto nell'opera di Erasmo da Rotterdam (1466-1536), il quale, nel celeberrimo Elogio della follia, criticò il formalismo logico della scolastica esaltando invece la forza vitale della passione e dell'amore, senza lesinare critiche alla corruzione del clero.
    Forse fu questo suo atteggiamento ad indurre Martin Lutero (1483-1546), nel 1519, a chiedere ad Erasmo un'esplicita dichiarazione a favore della Riforma protestante, ma il filosofo olandese, che rifiutava il concetto luterano di "grazia" (secondo cui solo Dio può salvare l'uomo, e non le buone azioni che questi può mettere in atto), oppose un secco rifiuto ed anzi pubblicò proprio contro Lutero lo scritto De libero arbitrio, in cui appunto si espresse a favore del libero arbitrio. Lutero replicò immediatamente col De servo arbitrio, riaffermando (secondo un'antica tesi agostiniana) che è Dio soltanto a predestinare l'uomo alla salvezza o alla dannazione. A Lutero fecero eco Ulrich Zwingli e Giovanni Calvino nella vicina Svizzera, e il protestantesimo trovò gran diffusione in gran parte dell'Europa del nord.

    Sempre in questa età assunse un particolare rilievo la concezione dello stato, visto però come fine a se stesso e non più (come avveniva nel Medioevo) quale semplice mezzo per realizzare uno scopo trascendente. I maggiori teorici di questa nuova visione dello stato furono Machiavelli, Moro e Grozio.




    Niccolò Machiavelli (1467-1527), famoso o famigerato autore del Principe, sostenne che, per il bene collettivo (!) dello stato, il principe, costretto a lottare contro gli egoismi individuali dei sudditi, deve cercare di armonizzarli, diciamo pure con le buone o con le cattive. In questo duro compito, egli si troverà a lottare contro la "fortuna", che per Machiavelli è padrona della metà delle azioni umane, mentre l'altra metà dipende dalla "virtù" (cioè dall'astuzia e dalla ferocia) dello stesso principe. In una simile concezione Dio non trova ovviamente alcun posto, in quanto sostituito (proprio come una divinità) dallo stato; e il singolo individuo è privato di qualsiasi importanza. Inoltre, per trovare concreta applicazione, tale concezione prevede una netta separazione della politica dalla morale. Qualcuno ha cercato di riscattare Machiavelli mediante un'interpretazione storicistica del suo libello: sottolineando cioè le pessime condizioni in cui versava l'Italia dell'epoca. Ma io mi permetto di osservare che secoli dopo, in condizioni analoghe, Giuseppe Mazzini si appellava bene o male al popolo, e non a un principe, un re, un presidente, o un tiranno... Non è infatti un caso se il machiavellismo incontrò posizioni antitetiche ad esso contemporanee. Si tratta di teorie che rientrano nella corrente definita giusnaturalismo, che poneva il diritto naturale quale fondamento del diritto positivo o statale.




    Un primo avviamento di questo indirizzo lo troviamo in Tommaso Moro (1478-1535), che nel suo celebre libro Utopia delineò uno stato ideale i cui punti essenziali sono l'abolizione della proprietà privata e il pluralismo religioso.
    Fu però l'olandese Ugo Grozio (1583-1645) a dare sistematicità al giusnaturalismo. Egli, ponendo come essenza della natura umana la ragione, identificò ciò che è naturale con ciò che è razionale: in tal modo il diritto naturale non è altro che l'espressione della ragione. Grozio sostenne dunque che, anteriormente ad ogni stato politico, è lecito supporre uno "stato di natura", nel quale gli uomini sono associati sulla base delle semplici leggi naturali. Pertanto uno stato politico, se vuole essere uno stato legittimo, deve ispirarsi al modello naturale e rispettarne le leggi fondamentali.




    Ultimo rappresentante della cultura umanistico-rinascimentale è considerato Michel de Montaigne (1533-1592), autore dei celeberrimi Saggi, apparsi in tre volumi fra il 1580 e il 1588. Nonostante il tono modesto e dimesso con cui egli presenta la sua opera:

    Questo, lettore, è un libro sincero. [...] Voglio che mi si veda qui nel mio modo d'essere semplice, naturale, consueto, senza affettazione né artificio: perché è me stesso che dipingo. [...] Sono io stesso la materia del mio libro: non c'è ragione che tu spenda il tuo tempo su un argomento tanto frivolo e vano,

    il libro di Montaigne abbraccia e analizza un'infinità di argomenti, trattandoli con uno sguardo finemente e pacatamente scettico. Nessuna sintesi può nemmeno avvicinarsi a delineare la bellezza e la profonda chiarezza dei Saggi, sulla quale basteranno due notevoli testimonianze: un fatto e una dichiarazione. Il fatto è che il grande scrittore francese Marcel Proust teneva perennemente il libro di Montaigne sul proprio comodino, leggendone qualche passo ogni sera. La dichiarazione è di Nietzsche: "Veramente per il fatto che un tal uomo abbia scritto, il piacere di vivere su questa terra è aumentato".