Un'antica tradizione, risalente ad Aristotele, colloca la nascita della filosofia nel VI secolo a.C., quando con Talete di Mileto si verificò il passaggio da una forma di pensiero mitico-religiosa a una forma logico-razionale per rispondere alle varie domande che gli uomini da sempre si ponevano: prima fra tutte quella relativa all'essenza della natura e dei suoi processi. Talete fu appunto il primo di quella schiera di pensatori noti, anche se impropriamente, col nome di presocratici: "impropriamente" perché non tutti vennero prima di Socrate, e in ogni caso perché non formarono una scuola omogenea. Del resto, come ha notato Carlo Sini, "è fondato il sospetto che l'interpretazione aristotelica delle origini della filosofia non sia storicamente attendibile, o non lo sia del tutto. Riferendo le dottrine dei presocratici, Aristotele mirava ad avvalorare la sua personale filosofia. I presocratici, cioè, avrebbero posto, spesso in maniera ancora ingenua, quelle domande che nella filosofia di Aristotele trovano finalmente una matura risposta". Nonostante ciò, prosegue Sini, "resta il fatto che da Aristotele non possiamo prescindere, perché la quasi totalità degli scritti dei presocratici è andata perduta" [Carlo Sini, I filosofi e le opere, Principato, Milano 1986, p. 3]. Una caratteristica saliente dei presocratici è comunque la persuasione che esista un'arché (vale a dire un principio, una causa, una sostanza) in grado di spiegare l'infinita varietà delle cose esistenti nell'universo. Tale principio, come vedremo, venne poi inteso in senso monistico (ad es. l'acqua) oppure in senso pluralistico (ad es. acqua, terra, aria e fuoco insieme). Dedicheremo a Talete (circa 620-550 a.C.) lo spazio necessario a rendere omaggio al ruolo assegnatogli da Aristotele, sveltendo poi il discorso. Poche, comunque, le notizie sicure sulla sua vita. Sappiamo che si occupò di politica, e che si dedicò alla matematica e all'astronomia, divenendo celebre in quest'ultimo campo per aver predetto l'eclissi solare del 28 maggio 585 a.C. Per il resto, su di lui possediamo alcuni aneddoti in vario modo indicativi della sua saggezza... Un aneddoto riferisce che, alla madre che periodicamente voleva indurlo a sposarsi, Talete continuava a rispondere: "Non è ancora il momento giusto"; finché, divenuto ormai vecchio, alla donna che lo tempestava sempre di più con la stessa richiesta, rispose: "Ora il tempo per queste cose è passato"... Ancor più emblematica è la storia secondo cui una volta, sentendosi domandare perché non volesse mettere al mondo dei figli, egli rispose: "Per amor loro". Si può indubbiamente ritenere che la prudenza evidenziata da Talete in questione di donne e di figli sia una dote lodevole, ma non sufficiente a farne un filosofo. Platone, tuttavia, riporta qualcosa di autenticamente filosofico quando narra che "Talete, osservando le stelle e guardando verso l'alto, cadde in un pozzo" e che, di fronte a questo fatto, "una spiritosa e acuta serva tracia lo abbia così deriso: egli vuol sapere cosa c'è nei cieli, ma gli rimane nascosto ciò che ha davanti agli occhi e ai piedi". L'aneddoto riportato da Platone sembrerebbe indicare l'inettitudine del filosofo per quanto riguarda le cose pratiche, ma tale interpretazione entrerebbe in contraddizione con quanto narra a sua volta Aristotele, che lo dipinge come un astuto uomo d'affari. Accortosi infatti che il raccolto di olive (nonostante le apparenze contrarie) prometteva di essere molto ricco, Talete fece incetta di tutti i frantoi della zona, per affittarli poi ad un prezzo più alto a coloro che prima lo avevano deriso. Non sappiamo se le cose siano davvero andate come narra Aristotele, ma con ciò egli vuol farci capire che per un filosofo sarebbe facile arricchirsi, ma che non è questo il suo scopo. Un senso analogo ha appunto il racconto di Platone, il quale ci fa comprendere che non sono i fenomeni ad interessare i filosofi, bensì la loro essenza e il loro fondamento... Talete voleva infatti cogliere che cosa in verità sta al fondo delle molteplici forme reali: i monti, gli animali, il vento, le stelle, l'uomo... Qual è l'essenza di tutto?, si chiedeva Talete. Da dove viene, da dove nasce tutto ciò?, quale ne è l'origine? che cos'è il principio che fa sì che le cose siano, esistano e muoiano? Tali (più o meno) le domande fondamentali di Talete; e l'averle poste per primo, e l'aver per primo tentato di rispondervi, lo hanno reso l'iniziatore della filosofia. L'interrogarsi sull'essenza e sul fondamento costituisce infatti, da allora fino ai nostri giorni, l'intento filosofico centrale. Non c'è dubbio che la risposta di Talete suoni alquanto strana ai nostri giorni. Infatti, sebbene Talete non abbia mai scritto nulla, dalle testimonianze che lo riguardano sappiamo che egli identificava l'arché di tutte le cose con l'acqua: cioè, più semplicemente, sosteneva che tutto è composto d'acqua... Una partenza poco incoraggiante, direte voi! D'altra parte, proprio perché non ha mai scritto nulla, non possiamo sapere con precisione il motivo che indusse Talete a questa conclusione. Aristotele ha in seguito ritenuto che egli abbia pensato a tale elemento perché la vita, per sussistere, ha appunto bisogno di acqua. E l'interpretazione aristotelica si è imposta nella storia della filosofia con un valore assoluto. Anassimandro (circa 610-550 a.C.), discepolo di Talete (l'unico probabilmente), criticò l'ipotesi del maestro sostenendo che una cosa specifica, determinata, come appunto è l'acqua, non può costituire il fondamento di tutte le singole cose. Egli pensò allora che dovesse trattarsi di una sostanza sconosciuta, non identificabile con alcuno degli elementi esistenti in natura. Ad essa diede il nome di àpeiron: parola che letteralmente significa non-limitato (in senso spazio-temporale) e non-determinato (in senso qualitativo). Con questa scelta egli voleva suggerire che ciò da cui tutto viene creato dev'essere diverso da tutto ciò che è creato, e quindi non può coincidere con una sostanza individuabile in natura. Ovviamente non è facile indovinare che cosa intendesse Anassimandro con la parola àpeiron, ma si può presumere che egli rifiutasse i semplici elementi (terra, acqua, aria, fuoco) come archài, in quanti essi non possono derivare l'uno dall'altro. Del suo trattato Sulla natura ci resta un frammento, che recita:
Insomma, dall'àpeiron tutto proviene e ad esso ogni cosa ritorna... Secondo varie fonti, Anassimene, anch'egli di Mileto, fu a sua volta amico e discepolo di Anassimandro; ma secondo un'altra determinazione cronologica egli sarebbe stato uditore di Parmenide, e ciò escluderebbe il suo apprendistato presso Anassimandro. In tempi a noi più vicini, ad esempio, così si è espresso Nietzsche: "Noi separiamo Anassimene da Anassimandro, e crediamo che abbia ascoltato Parmenide" (F. Nietzsche, I filosofi preplatonici, Laterza, Bari 1994, p. 36). Egli concorda con la tradizione nell'illustrarne la dottrina, quando scrive che Anassimene "per primo presuppone per certo che tutto sarebbe nato dalla rarefazione e dalla condensazione di una materia originaria" (ivi, p. 37). Tale materia prima, ovvero l'arché di tutte le cose, è l'aria, intesa come soffio vitale (o pneuma). Secondo Anassimene, infatti, è l'aria che, attraverso la sua condensazione, darebbe vita alle cose; e attraverso la sua rarefazione ne determinerebbe la morte. Ma appunto ciò, a giudizio di Nietzsche, "rappresenta un momento successivo che presuppone Eraclito e Parmenide. Subito dopo Anassimandro, ciò costituirebbe uno strano iato: qui abbiamo la prima teoria sul come? della evoluzione da una materia originaria: in tal modo Anassimene dà inizio all'epoca di Anassagora, Empedocle, Democrito, cioè a dire a un movimento più tardo della scienza naturalistica. Nel periodo più antico il problema del come? non è ancora posto. Anassimene [...] è del tutto sbagliato collocarlo semplicemente in questa successione: Talete l'acqua, Anassimandro l'apeiron, Anassimene l'aria, Eraclito il fuoco. Poiché la sua impresa consiste non tanto in ciò che ha presupposto come materia originaria. Perciò egli appartiene ad un periodo successivo. Di lui si può parlare solo dopo Eraclito e gli Eleati, e prima di passare ad Anassagora" (idem, p. 37). Al di là del problema cronologico, secondo gli studiosi Anassimene (pur facendo registrare in un certo senso un regresso rispetto alla concezione di Anassimandro) ha fornito una più convincente spiegazione del processo di deduzione del reale dall'unico principio. Egli sosteneva inoltre che l'aria è, nell'uomo, il principio dell'anima. |