La caduta dell'impero romano, avvenuta ufficialmente nel 476 ma giunta comunque al termine di una crisi plurisecolare irreversibile, inferse un duro colpo allo sviluppo del pensiero filosofico, coinvolto nel più generale decadimento culturale causato dalle invasioni barbariche.
L'unico nome illustre di questo periodo è quello di Severino Boezio (480-526), spirito eclettico, appassionato studioso di Platone e Aristotele, e autore del De consolatione philosophiae, scritto nel carcere romano in cui era stato rinchiuso dopo essere caduto in disgrazia presso Teodorico, di cui era stato fido consigliere. Dei cinque libri di cui è composta l'opera citata, il più affascinante è senz'altro il secondo, in cui si dimostra che la felicità non consiste nei beni della fortuna, bensì nell'essere sufficienti a se stessi. Dopo i secoli bui del Medioevo, la fiaccola della filosofia (per dirla come i manuali liceali di un tempo) fu tenuta viva dai monasteri e dal mondo arabo. Quest'ultimo, in particolare, esercitò un certo influsso sulla cultura occidentale contribuendo alla conoscenza e alla diffusione dei principali scritti di Aristotele. Questo fatto produsse innnanzi tutto un profondo interesse per le scienze naturali, e soprattutto pose il tema del rapporto tra fede e ragione, e quindi fra teologia e filosofia. In tal senso fu determinante l'opera di Ibn Rushd, più noto in Occidente col nome di Averroè (1126-1198), il quale ebbe il merito principale di far conoscere al mondo la Metafisica di Aristotele. Averroè prese le mosse dall'idea che le verità eterne contenute nelle diverse religioni possono essere fondate razionalmente: e quest'idea influenzò fortemente la Scolastica, cioè il secondo periodo, dopo la Patristica, del pensiero cristiano. Possiamo dunque concludere che storicamente Averroè fu importantissimo per le sue traduzioni e i commenti delle opere di Aristotele, che in Occidente erano state quasi completamente dimenticate o rimaste sconosciute: prima del 1150, solo pochissime opere aristoteliche erano infatti accessibili nell'Europa latina, e il recupero della tradizione aristotelica in Europa deve moltissimo appunto alla traduzione in latino degli scritti di Averroè, iniziata nel XII secolo. Tommaso d'Aquino, del quale presto diremo, anche se si oppose ad alcune correnti di pensiero averroiste a lui contemporanee, ha in comune con Averroè una profonda rivalutazione dell'opera di Aristotele. Fra i pensatori arabi di rilievo ricordiamo anche, fra gli altri, i nomi di Avicenna (980-1037) e Avicebron (1020-1058). Tornando all'Europa e alla filosofia cristiana, l'XI secolo ebbe un pensatore di rilievo in Anselmo d'Aosta (1033-1109), altro santo filosofo, che si è guadagnato fama eterna col celebre argomento ontologico, con cui era convinto d'aver dimostrato razionalmente l'esistenza di Dio. Si tratta di un capolavoro per la sua assurdità e longevità (venne ripreso, fra gli altri, da Cartesio), che possiamo riassumere così: pensate ad un essere perfetto; bene, poiché l'esistenza è una delle proprietà che decidono della perfezione, quest'essere perfetto non può mancare proprio dell'esistenza; perciò quest'essere perfetto esiste; chiamiamolo Dio, e siamo a posto... Ma siamo davvero a posto? L'argomentazione di Anselmo non convinse il monaco Gaunilone, che nel Liber pro insipiente obiettò che allora, se concepiamo l'idea di un'isola perfetta, dovremmo poi dichiararci certi anche della sua esistenza (col che il bravo monaco non voleva certo difendere l'ateismo, ma solo ribadire che l'esistenza di Dio è questione di fede e non di dimostrazione). L'argomentazione di Gaunilone venne più tardi ripresa, con qualche variante, da Kant; ma Anselmo aveva già risposto che Dio non è una cosa (come un'isola, una moneta o qualsivoglia altro ente naturale che può esistere o non esistere): Dio è la perfezione, e la perfezione non sarebbe tale se non possedesse anche l'esistenza. L'argomento ontologico, insomma, vale soltanto per Dio. A partire dal XII secolo, uno dei temi più dibattuti fra gli scolastici fu il cosiddetto "problema degli universali", riguardante l'effettiva esistenza degli stessi universali, con cui si intendono quei concetti generali (come "animale" o "uomo") quando si riferiscono a più enti individuali, come nella proposizione: "tutti gli uomini sono mortali". Le risposte fondamentali a questo problema erano due: il realismo, rappresentato soprattutto da Guglielmo di Champeaux (1070-1121), e il nominalismo, sostenuto da Roscellino di Compiègne (1050-1120). Il primo ammette l'esistenza degli universale ante rem, cioè prima e indipendentemente dalla costituzione delle cose reali; il secondo riduce invece gli universali a flatus vocis, cioè a semplici nomi privi di qualsiasi consistenza ontologica. Fra questi due estremi si colloca la tesi di Pietro Abelardo (1079-1142), allievo sia di Roscellino che di Guglielmo. Secondo tale tesi, che vien detta concettualismo, gli universali, anche se non sono reali antecedentemente alle cose individuali (ante rem) e neanche in quanto immanenti ad esse (in re), hanno tuttavia una realtà mentale, costruita in base all'esperienza delle cose: sono quindi reali post rem. L'universale si configura così come una funzione logica, un significato, e non come una "cosa". Di Abelardo è giusto ricordare anche il contributo che egli diede all'etica, perché l'adesione alla sua teoria è in grado di togliere (o magari di infondere ed intensificare) qualche senso di colpa per gli effetti prodotti da un nostro comportamento. Infatti, al di là della sola norma esteriore, egli rivendica l'importanza della coscienza e della retta intenzione come criteri per giudicare la moralità di un'azione. La scolastica raggiunse il suo apogeo con Tommaso d'Aquino (1225-1274), che fu tra l'altro il principale responsabile della reintroduzione di Aristotele nella tradizione occidentale (Per un bel po' di secoli, infatti, lo Stagirita era stato discretamente ignorato dagli studiosi, che non volevano ammettere di non essere in grado di capire il greco). Di Tommaso ricordiamo innanzi tutto la sua convinzione che fede e ragione non discordano fra loro, ma ciascuna si occupa di un campo ben distinto ed autonomo: infatti la ragione controlla le verità naturali, mentre la fede ha per oggetto quelle soprannaturali. Ed esse addirittura interagiscono, secondo Tommaso, per quanto riguarda l'esistenza di Dio; tant'è vero che egli elaborò ben cinque argomenti per dimostrarla: la qual cosa prova che non era rimasto granché impressionato dall'argomento ontologico di Anselmo. Ma vediamo queste prove... L'esistenza di Dio 1. Ogni movimento è posto in atto da un altro movimento: si deve quindi risalire a un motore immobile che tutto muova senza essere mosso da nulla. 2. Ogni cosa, considerata come effetto, ha la sua causa: risalendo all'indietro si arriva ad una causa prima non causata, che è causa di tutto senza essere causata da nulla. 3. Ogni cosa esistente è contingente, cioè ha in qualcos'altro la sua ragion d'essere: si deve quindi risalire a un essere necessario, cioè ad un essere che abbia in se stesso la propria ragion d'essere. 4. Ogni cosa esistente ha un proprio grado di perfezione: risalendo in questa gerarchia di valori, si giunge all'essere perfettissimo che è Dio. 5. Nel mondo sono visibili un'armonia ed un ordine che presuppongono un'intelligenza ordinatrice. A ben guardare, non c'è molta differenza tra i primi tre argomenti, e quindi Tommaso, se possiamo usare una metafora, faceva il furbo dichiarando delle carte più alte di quelle che aveva in mano. Tuttavia la grandezza di Tommaso non deriva soltanto da queste dimostrazioni. Per rendersene conto basterà accennare le teorie da lui proposte in ambito metafisico e gnoseologico. La metafisica In campo metafisico egli si concentra sulla distinzione tra ente ed essenza. Ebbene, dopo aver distinto tra ente reale (concreto) ed ente logico (mentale), Tommaso si concentra sull'ente reale, a proposito del quale soltanto è lecito parlare di essenza, che il filosofo chiama anche quidditas (poiché risponde alla domanda: "quid est?", che cos'è?) e che può abbracciare più elementi che si esplicano nella definizione. Ad esempio, se definiamo l'uomo come un "animale ragionevole", l'essenza comprende l'animalità e la razionalità. Un giorno l'uomo potrebbe anche non esistere più, ma ne rimarrebbe comunque l'essenza, la quale si differenzia così dall'esistenza, che rappresenta l'essere concreto (nel nostro caso, l'uomo reale). In questo senso l'essenza sta all'esistenza come la potenza sta all'atto. Ebbene, per Tommaso tutti gli enti finiti possono esistere oppure no: sono cioè contingenti e postulano dunque l'esistenza di un essere infinito e necessario: quest'essere è naturalmente Dio, in cui essenza ed esistenza coincidono, e il cui intervento creativo consente o nega agli enti la loro individuale esistenza. La gnoseologia In ambito gnoseologico Tommaso segue la dottrina aristotelica eliminando ogni forma di innatismo e sostenendo che ogni conoscenza inizia con la sensazione: "nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu" (cioè, nulla è nell'intelletto che non sia stato prima nei sensi). A questa teoria si collega l'interpretazione che Tommaso dà al problema degli universali, i quali non esistono fuori delle cose singole, ma sono reali soltanto in esse. Dunque gli universali sono in re (come forma delle cose) e post rem (nell'intelletto); e solo nella mente divina esse sono ante rem, come modello o idea delle cose create. |