A partire da questo momento la filosofia iniziò a dividersi in due tradizioni: quella europea e quella anglosassone. La prima tendenzialmente razionalista, la seconda prettamente empirista.
Ricordiamo che il termine razionalismo designa la persuasione che la realtà sia conoscibile e interpretabile mediante la ragione, al di là di ogni esperienza. Il termine empirismo indica invece ogni dottrina che considera l'esperienza come condizione essenziale della conoscenza. L'impostazione strettamente razionalista e matematica di Cartesio fu criticata da Blaise Pascal (1623-1662), per il quale la ragione, da lui detta esprit de géométrie (cioè "spirito di geometria"), non ha valore assoluto nemmeno in capo matematico e scientifico: nella matematica, in quanto processo deduttivo, essa è infatti costretta a partire da postulati; e nella scienza, essa è da un lato preceduta e guidata dall'esperienza, dall'altro non può rendere conto di concetti fondamentali per la scienza stessa, come lo spazio e il tempo. Tanto meno, allora, la ragione sarà in grado di indagare e spiegare quel microcosmo complesso, multiforme, contraddittorio e sfuggente, che è l'uomo. Alla "ragione geometrica" occorre dunque affiancare l'esprit de finesse (cioè la "ragione del cuore", la finezza intuitiva), indispensabile per affrontare i problemi e cogliere il senso dell'esistenza. E proprio in questo campo, più ancora dei limiti della ragione, lo spirito di finezza costringe l'uomo ad assumere consapevolezza della propria "miseria": ma appunto in questa consapevolezza, secondo Pascal, consiste la grandezza dell'uomo, dotato di pensiero, rispetto al resto dell'universo, che non è in grado di pensare. Ovviamente non tutti trovano consolante questa concezione, ed allora c'è chi (oggi più di allora) si dà alla pazza gioia, illudendosi in tal modo di smorzare l'angoscia per la propria nullità. Ma Pascal ammonisce severamente che non bisogna distrarsi sollazzandosi e sbellicandosi dalle risate, perché compito dell'uomo è tendere a Dio, sulla cui esistenza si può scommettere senza indugi: infatti, chi ha fede nell'esistenza di Dio ha tutto da guadagnare e nulla da perdere perché, se Dio non c'è, non si perde nulla, ma se c'è si conquista la vita ultraterrena. Penso che i giocatori d'azzardo non abbiano mai trovato un gioco più sicuro! Dalla speculazione di Cartesio prese le mosse il filosofo olandese Baruch Spinoza (1632-1677), il quale, pur essendo un convinto razionalista (tanto che pensò di analizzare l'etica entro una struttura strettamente logica), rifiutò la distinzione cartesiana tra pensiero (spirito) ed estensione (materia), affermando che tutto ciò che esiste può essere ricondotto a una sola sostanza, che egli chiamò anche Dio o Natura. Spinoza insomma non ebbe una concezione dualistica della realtà come l'ebbe Cartesio, bensì una visione monistica. Si può affermare che Spinoza è un panteista: per lui infatti, come già per Bruno, Dio non è colui che ha creato il mondo e che sta al di sopra o al di là del mondo: Dio è il mondo stesso, o (che è lo stesso) la natura è Dio. E il pensiero e l'estensione, che Cartesio indicava come due entità contrapposte (anche se entrambe derivate da Dio), non sono in realtà che due aspetti dell'unica sostanza. Spinoza chiama questi due aspetti attributi di Dio, e chiama modi di tali attributi i singoli fenomeni sia materiali che spirituali: per esempio un colle (facciamo il monte Tabor) e una poesia (facciamo L'infinito di Leopardi) rappresentano diversi modi degli attributi "estensione" e "pensiero". La sostanza, o Dio, o la Natura, si manifesta dunque in modi diversi: un colle è un modo dell'attributo "estensione", mentre una poesia che riguarda lo stesso colle è un modo dell'attributo "pensiero". Entrambi però sono in definitiva espressione della stessa sostanza. Il panteismo di Spinoza non riconosce all'uomo la libertà come possibilità di scelta: ogni momento è infatti determinato dal momento precedente; ogni atteggiamento umano deriva necessariamente dai suoi antecedenti. La libertà è dunque una mera illusione: l'uomo crede di scegliere, ma non è così. Egli crede libere le sue azioni perché non ne conosce completamente le cause. E come l'uomo, persino Dio viene privato di quei caratteri che tradizionalmente gli vengono attribuiti: libertà, bontà, intelligenza, conoscenza, volizione. Un altro importante razionalista fu il tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), noto anche a molti che non conoscono la filosofia per la caricatura che ne ha fatto Voltaire con il Pangloss del Candide, vale a dire l'idiota iperottimista convinto, per usare le stesse parole di Leibniz, che
affermazione vistosamente priva di senso. Ma vediamo la solita discussione sul dualismo cartesiano... A questo proposito Leibniz si concentra soprattutto sulla concezione della res extensa, o meglio sull'estensione intesa come sostanza. Egli critica tale concezione adducendo due argomenti fondamentali: 1. Poiché l'estensione è omogenea e uniforme, come può differenziarsi in figure e grandezze distinte? 2. L'estensione, in quanto divisibile all'infinito, non può essere sostanza, poiché la sostanza ha come sua essenza l'unità. Da ciò Leibniz conclude che la vera sostanza è inestesa, semplice e indivisibile, e ad essa assegna il nome di monade. Ma questo concetto non va inteso come sinonimo della sostanza spinoziana, la quale viene anzi dissolta da Leibniz in singole sostanze (o monadi) infinitamene numerose, ciascuna delle quali impenetrabile all'azione delle altre ("la monade è senza finestre", dice il filosofo) ma tutte armonizzate tra loro dalla Monade Suprema che è Dio, secondo un'armonia prestabilita. Questa espressione significa che Dio, al momento della creazione, ha stabilito un accordo fra le varie monadi di modo che le intime modificazioni di ogni monade corrisponda a quelle delle altre monadi, senza che esse si influenzino direttamente. Questa concezione spiega l'ottimismo racchiuso nella citazione prima riportata: Dio è Dio, non un orefice o un calzolaio, e dunque fra gli infiniti mondi possibili non può che aver dato forma e vita e quello migliore. Si potrebbe obiettare: ma se Dio ha creato il migliore dei mondi, come si spiega l'esistenza del male? Si deve forse dubitare della perfezione di Dio? Per risolvere tale questione Leibniz ricorre alla triplice divisione del male in male metafisico (o finitezza, imperfezione), fisico (o dolore) e morale (o peccato), sostenendo che gli ultimi due originano dal primo. Ma consoliamoci pensando che un mondo diverso sarebbe peggiore di questo, che in modo diametralmente opposto il poeta Giovanni Pascoli ebbe a definire come un "atomo opaco del Male" [Forse ignorava Leibniz, o forse non ne condivideva per niente il pensiero]... L'atteggiamento razionalista, che risale a Parmenide, Socrate e soprattutto Platone, fu il più diffuso nella filosofia del Seicento, ma esso fu contrastato già nello stesso secolo da John Locke (1632-1704), il quale affermò che la nostra mente è una tabula rasa, cioè che essa è completamente priva di contenuto, se prima non abbiamo avuto esperienze sensoriali. Questo modo di vedere (come abbiamo ripetuto più volte) viene appunto chiamato empirismo, ed "empirista" è, perciò, chi vuole derivare la conoscenza del mondo partendo dai sensi. Anche questa concezione ha antecedenti illustri: infatti la sua formulazione risale già ad Eraclito e più consapevolmente ad Aristotele, il quale disse che "non c'è niente nell'intelletto che non sia stato prima nei sensi". Questa affermazione conteneva una puntuale critica all'innatismo di Platone, e Locke riprese la stessa obiezione contro Cartesio. Su tale base Locke sostenne che quando usiamo parole come Dio o anima o sostanza, la ragione funziona a vuoto, perché nessuno ha mai avuto esperienza di Dio, dell'anima e di ciò che i filosofi chiamano sostanza. Queste idee non sono dunque che costruzioni della mente, prive di fondamento... Il punto di vista empirista è assai più diffuso di quello razionalista, a livello di senso comune: ma è opportuno far notare che esso comporta non pochi problemi, come ad esempio quello di spiegare concetti astratti come i numeri e l'infinito. L'irlandese George Berkeley (1685-1753) fu ancora più radicale, tanto che la sua bizzarra teoria filosofica può essere compendiata in quella che è la sua formula più nota:
che in sostanza vuole dire che il mondo esterno alla mente esiste solo quando è percepito da quest'ultima. Questo modo di vedere si chiama idealismo soggettivo e, se portato alle estreme conseguenze, rischia di sprofondare nel solipsismo, cioè nella patologica convinzione che esisto solo io (con i miei stati mentali)... Si tratta di una visione davvero malinconica, e per fortuna non sono in molti a sostenerla. Anche perché il mio "io" si scontrerebbe col tuo. Cosicché, se io la pensassi così, e tu la pensassi come me, come stabilire chi esiste davvero di noi due? Si finirebbe per assomigliare ai protagonisti della seguente storiella. In un manicomio (parola desueta, ma efficace) si incontrano due tizi; uno dice all'altro: "Piacere, Napoleone", e l'altro sdegnato: "Cosa dice? Napoleone sono io!". Al che il primo replica: "Allora uno di noi due è matto"... Conseguenza naturale di simili concezioni è una sorta di scetticismo: quello a cui appunto approdò David Hume (1711-1776). Per comprendere lo scetticismo humiano dobbiamo ricordare che per Locke, quando usiamo parole come Dio o eternità o sostanza, la ragione funziona a vuoto, perché nessuno ha mai avuto esperienza di Dio, dell'eternità e di ciò che i filosofi chiamano "sostanza". Queste idee non sono dunque che costruzioni della mente, prive di fondamento. Ecco: possiamo ora osservare che Hume, pur negando la possibilità di dimostrare l'immortalità dell'anima o l'esistenza di Dio, non escludeva però le due cose: riteneva soltanto che la pretesa di dimostrare la fede religiosa con la ragione umana fosse un non-senso razionalista. Dunque Hume non era cristiano, ma neppure era un ateo convinto: era un agnostico. L'agnosticismo (religioso, non gnoseologico) detiene una posizione scomoda, perché può essere avversato tanto dal credente quanto dall'ateo; tuttavia, sembra la posizione più moderata e razionale. Non è infatti un caso che Hume abbia svolto per Kant, a dire dello stesso interessato, una funzione di "risveglio" dai "sogni dogmatici" della metafisica. La metafisica, infatti, intende stabilire se vi sia un'anima e se essa sia immortale, se il mondo nella sua totalità sia finito o infinito, se Dio esista e come possiamo dimostrarlo e pensarlo. Ma, come vedremo, proprio i concetti dei Dio, anima e mondo, a giudizio di Kant, sono razionalmente inconoscibili. Però di Hume dobbiamo ancora ricordare la celebre critica al concetto di causa e al connesso principio di causalità. Hume nega che vi sia una connessione di fatto tra causa ed effetto, e sostiene che tale rapporto è soltanto frutto dell'abitudine. Per fare un esempio, noi diciamo che la pioggia (causa) bagna la terra (effetto), ma in realtà questo rapporto non è dimostrabile né a priori né a posteriori. Nel sostenere che la pioggia è la causa della terra bagnata noi in realtà associamo due fenomeni distinti: e in generale si può dire che la causa è un fenomeno che precede un altro fenomeno; e che la certezza delle nostre verità si dissolve nella semplice abitudine. |