Anche se contrapposti tra loro, il razionalismo con l'importanza assegnata alla ragione e l'empirismo col valore riconosciuto all'esperienza, contribuirono entrambi alla nascita di quel vasto e complesso movimento noto col nome di Illuminismo, diffusosi in quasi tutta l'Europa durante il '700, che non a caso viene spesso definito "il secolo dei lumi".
È noto che ancor oggi è diffusissima l'espressione "lume della ragione", e difatti il "lume" di cui si tratta (e da cui deriva la stessa parola "Illuminismo") è proprio quello della ragione, con un'evidente metafora, che potremmo così trasporre: "come un lume rischiara una stanza, così la ragione fa chiarezza nella mente", al fine di liberarla dall'ignoranza, dai pregiudizi e dalle superstizioni. Kant, che fu il più grande filosofo di quell'età ma a cui dedicheremo un capitolo a parte per l'importanza e la complessità del suo pensiero, disse:
Questa celebre definizione compendia l'essenza e lo scopo dell'illuminismo, nei termini che abbiamo già sinteticamente descritto e che possiamo integrare con un'altra fondamentale caratteristica: la critica implicita al principio di autorità e la conseguente autonomia del soggetto. Abbiamo detto che questo movimento si diffuse in quasi tutta l'Europa, ma dobbiamo ora aggiungere che in Inghilterra, dopo i grandi precursori che possiamo individuare soprattutto in Locke e Hume, non si ebbero pensatori di grande rilievo. Fu invece la Francia a fornire (Kant a parte) i massimi geni del movimento. Iniziatore dell'illuminismo francese viene considerato Pierre Bayle (1647-1706), autore di un celebre Dizionario storico e critico in cui sottopose a severa condanna il sistema cartesiano e soprattutto l'ottimismo metafisico di Leibniz. Lo spirito critico che informava l'opera di Bayle venne accentuato dal più grande pensatore francese del secolo: François Marie Arouet, molto più noto con lo pseudonimo di Voltaire [1694-1778], autore arguto, brillante e multiforme (oltre che trattati filosofici, scrisse infatti romanzi, opere teatrali, saggi scientifici e divulgativi). Il capolavoro filosofico di Voltaire è senza dubbio il Dizionario filosofico, pubblicato nel 1764 e subito condannato dalle autorità, sia laiche che ecclesiastiche, poiché egli rivolgeva i suoi strali proprio contro lo stato assolutistico e soprattutto contro la chiesa cattolica. Il che significa senz'altro, da un lato, che sul piano politico egli era moderatamente progressista, mentre d'altro lato sarebbe azzardato parlare per lui di ateismo. Voltaire infatti rimproverava duramente il dogmatismo e il fanatismo del clero, ma scrisse anche:
Alla tradizione filosofica in generale, Voltaire dedicò un agile volumetto dal titolo Il filosofo ignorante, alludendo socraticamente a se stesso. In esso egli si scaglia principalmente contro la metafisica, sostenendo la conoscenza che l'uomo può conseguire intorno ai problemi che trascendono l'esperienza è praticamente nulla. Nonostante la risonanza europa (e ormai da tempo mondiale) dell'opera di Voltaire, la mente filosoficamente più acuta degli illuministi francesi fu però quella di Étienne Bonnot de Condillac (1714-1780), considerato il fondatore del sensismo. Nel Trattato delle sensazioni, pubblicato nel 1754, egli sostenne che ogni conoscenza, compresi gli atti della mente, derivano in ultima istanza dalla sensazione; ed anzi giunse ad affermare che ogni attività psichica non è altro che una sensazione "trasformata": così l'attenzione è sensazione intensa, la memoria sensazione conservata, il desiderio sensazione gradevole, ecc. Il sensimo di Condillac è in pratica una radicalizzazione dell'empirismo di Locke. Infatti, mentre quest'ultimo ammetteva due fonti di conoscenza, cioè la sensazione e la riflessione, Condillac riconosceva soltanto la prima: da qui il nome assegnato alla sua dottrina. Essendo un uomo sinceramente religioso, Condillac non riconobbe (o finse di ignorare) gli esiti materialistici impliciti nella sua concezione, forse temendo le pericolose conseguenze sul piano morale e sociale. Tali esiti, però, furono portati alla luce da altri pensatori (come La Mettrie e Helvétius) e culminarono nell'ateismo di Paul Henri Thiry d'Holbach (1723-1789). Ai margini dell'illuminismo - nel senso che in parte egli rientra in tale corrente ma in parte ne disconosce alcuni aspetti essenziali - troviamo la grande figura di Jean-Jacques Rousseau (1712-1778). Tanto per cominciare Rousseau nega l'idea che il progresso abbia contribuito a migliorare la vita degli uomini, ed anzi afferma che la civilizzazione ha corrotto lo "stato di natura", che egli considera in modo diametralmente opposto rispetto a Hobbes. Per Rousseau, infatti, l'uomo è intrinsecamente buono ed è invece la società a corromperlo, rendendolo egoista, violento e malvagio [è il noto mito del "buon selvaggio"]. La condanna del mondo moderno è racchiusa nella frase forse più celebre e toccante che Rousseau abbia scritto:
Queste "catene", che tolgono all'uomo la sua libertà originaria, derivano appunto dallo stato e dalle istituzioni sociali; e la prima di tutte è la "proprietà privata", considerata da Rousseau come la fonte di tutti i mali: essa, infatti, porta alla divisione del lavoro, alla dipendenza e all'alienazione. D'altro canto Rousseau si rende conto che non si può semplicemente ritornare allo "stato di natura". Così, nel Contratto sociale, che resta uno dei trattati politici più famosi di ogni tempo, egli delinea un tipo di società che possa portare al riscatto dell'umanità: le condizioni essenziali per realizzare questo obiettivo sono la libertà e l'uguaglianza; e tali condizioni, secondo Rousseau, possono riscontrarsi soltanto in uno stato democratico, in cui la sovranità appartenga direttamente al popolo, senza intermediari. Rousseau propone questa concezione, che si chiama democrazia diretta perché ha in mente quei piccoli stati come la Svizzera. Storicamente, però, nei paesi dove tale forma di governo esiste, la democrazia si è affermata nella forma rappresentativa o indiretta. Molto più di Rousseau, fu l'unico grande filosofo italiano dell'epoca, Giambattista Vico (1668-1744), a non condividere le idee illuministiche, anche se bisogna precisare che la sua filosofia si svolse soprattutto in contrasto con Cartesio, al quale rimproverava di aver "mutilato" la natura umana ammettendo solo la ragione e dimenticando la fantasia e il sentimento, che non meno di quella contribuiscono a formare l'uomo nella sua concretezza. Su questa base, Vico affermò che accanto al "vero" bisogna porre il "verisimile", che riguarda l'oratoria e la retorica, la poesia e la storia, insomma la maggior parte dell'attività umana. Ma l'attacco più deciso fu portato da Vico al principio stesso della filosofia cartesiana: il cogito, la cui percezione equivale a una consapevolezza psicologica ma non a una vera conoscenza. Ciò perché, secondo Vico, l'uomo può conoscere davvero soltanto ciò che egli stesso ha fatto:
cioè, "il vero equivale al fare". E l'uomo, evidentemente, non può essersi fatto da sé... L'uomo, però, fa la storia, che è quindi il solo ambito in cui la conoscenza umana può esercitarsi positivamente. La storia è dunque per Vico la "nuova" scienza, e per questo intitolò il suo capolavoro La scienza nuova. In questo libro Vico sostiene che la storia dell'umanità attraversa tre fasi, e precisamente: l'età degli dei, l'età degli eroi e l'età degli uomini. Nella prima gli uomini "sentono senza avvertire", nella seconda "avvertiscono con animo turbato e commosso", nella terza "riflettono con mente pura". Ma la storia non finisce qui: secondo Vico, infatti, ogni civiltà, giunta al culmine del proprio processo di incivilimento, decade e muore, per ricominciare un nuovo identico "corso. Sono i famosi corsi e ricorsi storici, nei quali si manifesta comunque, per Vico, l'azione decisiva della "provvidenza divina". |