Sembra ineluttabile che, quando le cose vanno troppo bene, non possano che peggiorare. Questa regola, che spesso molte persone riscontrano sulla propria pelle nella vita quotidiana, sembra tanto più valida per la filosofia. Insomma, raggiunto l'apogeo con Tommaso, la scolastica subì un'involuzione che la condusse in breve alla fine. Il motivo che più influì su tale declino è sicuramente l'opposizione al tomismo da parte di quei filosofi che, anziché adeguarsi all'aristotelismo cristiano, preferivano attenersi all'insegnamento di Agostino: primo fra tutti Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274), il quale, pur accogliendo in parte i concetti di materia e di forma, mal sopportava l'ipse dixit con cui gli aristotelici indicavano l'indiscutibilità della filosofia di Aristotele. Bonaventura ribadì invece che non esiste vera conoscenza se non è illuminata dalla rivelazione e dalla fede. Egli concepiva il mondo come segno o vestigio o specchio di Dio, e nel suo Itinerarium mentis in Deum, che costituisce un capolavoro del misticismo medievale, descrisse le tappe del cammino che l'anima deve compiere verso Dio, memore dell'antico motto di Agostino, il quale, dopo aver invitato l'uomo a non allontanarsi dalla propria interiorità, aggiungeva: "e se troverai la tua natura mutevole, trascendi anche questa". Ma furono soprattutto i suoi ultimi grandi maestri a determinare la crisi irreparabile della scolastica. Dapprima Duns Scoto (1265-1308), nel suo grandioso quanto vano tentativo di compiere una sintesi fra aristotelismo e agostinismo, fu costretto a concludere che le verità della fede sono estranee alla scienza, perché la teologia non può avere carattere dimostrativo. E pochi anni dopo Guglielmo di Occam (1280-1349) distinse nettamente il campo dell'esperienza da quello della fede, con una determinazione tale da fargli asserire che nessun problema metafisico (e tanto meno teologico) è passibile di dimostrazione razionale. Su quest'ultimo pensatore, universalmente riconosciuto come il più grande logico del Medioevo, dovremo soffermarci un po' di più... Occam è in particolare famoso per aver inventato il cosiddetto rasoio di Occam, che chiaramente non è un modello primitivo dell'attuale gamma Gillette, sebbene molti secoli dopo Bertrand Russell affermerà che con esso Occam intendeva radere "la barba di Platone". Si tratta dunque di una metafora la quale sta ad indicare che Occam mirava a liberare la filosofia dall'ingombrante presenza degli universali. Si tratta insomma di un vero e proprio principio di parsimonia ontologica, esaltato da tutti gli anti-metafisici. Esso afferma infatti che
Il che significa che non bisogna ipotizzare l'esistenza di cose che non cadono sotto la nostra diretta esperienza. Così, approfondendo il concettualismo di Abelardo, Occam considerò gli universali (o concetti) come "segni" della mente che stanno al posto delle cose reali, anche se in modo un po' generico e vago. La parola "uomo", infatti, può designare sia il mio amico Roberto che il signor Berlusconi (mi auguro che uno dei due non se la prenda per questo accostamento), ma appunto in modo generico: per conoscere veramente l'uno o l'altro devo avere di loro una diretta esperienza sensibile. Di conseguenza, la dimostrazione logica è esclusa dal campo della metafisica e della teologia, ed Occam sottolineò ancor più di Scoto l'estraneità delle verità di fede alla comprensione razionale. In tal modo ogni filosofia cristiana insegnabile per concetti e dimostrazioni (cioè ogni possibilità di una "scolastica") è esclusa per principio. |