Questa canzone fu pubblicata in 45 giri nel 1965, ma era stata composta tre anni prima, come sappiamo dalla presentazione che ne fece lo stesso cantautore durante il tour del '97.
Varrà la pena richiamare più estesamente quel suo intervento: "È una canzone del 1962, dove precisavo già il mio pensiero. Avevo 22 anni, adesso ne ho... e il mio pensiero non è cambiato, perché un artista, a qualsiasi arte si dedichi, ha poche idee, ma fisse. Io credo che gli uomini agiscano certe volte indipendentemente dalla loro volontà. Certi atteggiamenti, certi comportamenti sono imperscrutabili. La psicologia ha fatto molto, la psichiatria forse ancora di più, però dell'uomo non sappiamo ancora nulla. Certe volte, insomma, ci sono dei comportamenti anomali che non si riescono a spiegare e quindi io ho sempre pensato che ci sia ben poco merito nella virtù e poca colpa nell'errore, anche perché non ho mai capito bene che cosa sia la virtù e cosa sia l'errore. È una questione di relativismo, sia geografico che temporale... tutto è molto relativo. Anche le leggi sono assolutamente relative e il loro rispetto altrettanto. Insomma, credo che siamo tutti condizionati da un relativismo morale. Non esistono, secondo me, verità assolute. E quindi è inutile condannare qualcuno". Tale conclusione sostiene e giustifica le commosse parole finali di questa canzone, che già nel titolo richiama una celebre poesia di Umberto Saba, intitolata appunto Città vecchia. Si tratta qui di una serie di "quadri" di vita di un quartiere genovese del centro storico, attraverso i quali, ancora una volta, De André rappresenta il mondo degli emarginati, a lui così cari ed invece così spesso dimenticati, persino dal "buon Dio". Prostitute e pensionati sono descritti con evidente simpatia, perché raffigurano la schiettezza e la semplicità contro la calcolata ipocrisia del "vecchio professore" dall'ambiguo comportamento. Le ultime due strofe delineano con maggiori particolari la zona dell'angiporto e i personaggi che vi conducono la propria sordida esistenza:
Insomma, La città vecchia esemplifica con immagini indelebili l'etica scettica di De André: ladri e assassini, approfittatori senza scrupoli, prostitute e vecchi ubriaconi, non sono certo – parlando metaforicamente – dei "gigli", ma, almeno per De André, sempre e soltanto "vittime di questo mondo". La locuzione "questo mondo", per motivi metrico-ritmici, è probabilmente usata in luogo di "questa società"; tuttavia, se fosse da intendere in senso proprio, il giudizio di De André assumerebbe una valenza meno ideologica e più strettamente esistenziale, rendendo ancor più intenso e drammatico, quasi fatalistico, il suo punto di vista. Vorrei chiudere sottolineando come, ancora una volta, lo sfondo tematico principale della lirica – che pur rappresenta, per così dire, una summa ante-litteram dell'opera deandreana – sia costituito dal binomio amore-morte. Per entrambe le esperienze – l'una sempre gradita e l'altra generalmente deprecata – De André usa la stessa immagine, concreta in un caso e metaforica nell'altro. Le "braccia" della donna avvolgono l'uomo nell'estasi sensuale; quelle della morte lo destinano all'oblio. Ma i "pensionati" di De André si abbandonano alla morte con un "sorriso": probabilmente perché hanno capito, come ha osservato il filosofo Friedhelm Moser, che "quando si è vecchi morire è normale, mentre conservare la salute e la vita a tutti i costi è come voler forzare la natura". Nel verso così tenero e commovente creato da De André, vi è dunque un atteggiamento filosofico di fondo, anteriore del resto all'opinione espressa da Moser, la quale contrasta comunque vistosamente con l'attuale mania (anche senile) per le palestre e i lifting... Tra le figure retoriche si possono segnalare la metafora iniziale: "Nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi"; un'efficacissima iperbole: "gonfi di vino"; l'espressione ossimorica: "ci sarà allegria anche in agonia"; una stupenda sinestesia nella parte finale: "in quell'aria spessa carica di sale / gonfia di odori"; e, al penultimo verso, la rima/paronomasia: "gigli… figli". ASPETTI METRICI Lo spartito originale riporta quattro "ritornelli" di 16 versi ciascuno, distesi sul ritmo cadenzato della mazurka (il tema musicale è una rielaborazione di Le bistrot di Brassens) e suddivisi in modo da ottenere una rima baciata tra i versi pari, mentre quelli dispari restano generalmente irrelati, tranne i vv. 9-11 ("difetterà" / "capacità") e 37-39 ("disprezzo" / "prezzo"). Nei versi pari, però troviamo anche un'assonanza atona ai vv. 40-42 ("notte" / "ventisette") e una tonica ai vv. 48-50 ("moli" / "odori"). Roberto Cotroneo scandisce invece il testo in otto quartine di versi liberi a rima baciata. I primi due versi della sesta e della settima strofa (corrispondenti ai vv. 40-42 e 48-50 dello spartito) sono però, come detto, in assonanza. Frequenti, in ogni caso, risultano anche le rime al mezzo. CONFRONTO Le canzoni di De André hanno spesso riferimenti colti, a parte ovviamente quelli che derivano dallo studio e dall'elaborazione di testi letterari veri e propri (come negli album La buona novella e Non al denaro, non all'amore né al cielo). Un caso esemplare ci è offerto, per questa canzone, da Città vecchia di Umberto Saba.
Tuttavia vi è anche una differenza ideologica sostanziale fra i due autori: mentre per Saba "il Signore" riscatta con la sua presenza i reietti della sua città, il "buon Dio" di De André "non dà i suoi raggi" ai poveri quartieri genovesi. Più forzato, inoltre, sembra l'atteggiamento di Saba, che vede il suo pensiero "farsi / più puro dove più turpe è la via", di fronte a quello di De André, che si limita a definire meno enfaticamente "vittime" gli umili abbandonati non solo da Dio, ma anche dalla società. A livello metrico, anche perché svincolato da esigenze melodiche, il testo di Saba risulta più regolare: prevalgono infatti gli endecasillabi, intercalati da altri imparisillabi brevi: settenari (vv. 8 e 21), quinari (vv. 10, 14, 18) e un ternario (v. 16). La quartina iniziale ha uno schema a rima incrociata ma con assonanza tonica ai vv. 1 e 4. La terzina di chiusura ha lo schema di una terzina dantesca. Sapiente è la distribuzione delle rime nella parte centrale, dove l'unico termine irrelato ("vecchio") è comunque in rapporto di rima imperfetta coi vv. 2-3. [Giuseppe Cirigliano, Il "primo" De André, Emmelibri, Novara, 2004] |