Quella di Michè è la prima di una serie di indimenticabili figure di suicidi: come non ricordare, ad esempio, il protagonista di Preghiera in gennaio (che ormai sappiamo essere Luigi Tenco, sventurato amico di Fabrizio e, come lui, grande poeta in musica), oppure la splendida figura di Nancy (la prostituta dell'omonima canzone di Leonard Cohen, superbamente tradotta da De André)?

L'attacco ci conduce immediatamente nel cuore del dramma, a suicidio ormai consumato:
Quando hanno aperto la cella
era già tardi perché
con una corda sul collo
freddo pendeva Michè.
Poi, per analessi, veniamo a conoscere il motivo del tragico gesto di Michè, che fa capire come, nel suo caso, "il suicidio è un atto di affermazione, una dichiarazione di identità". Il protagonista, infatti, si è impiccato non riuscendo a tollerare l'idea di vivere vent'anni lontano dalla sua Marì, per gelosia della quale si era macchiato di omicidio, subendo una dura e ineluttabile condanna:
Vent'anni gli avevano dato
la Corte decise così
perché un giorno aveva ammazzato
chi voleva rubargli Marì.
Non sono quindi il pentimento e il rimorso a indurre Michè a togliersi la vita, bensì la consapevolezza di essere pienamente se stesso solo accanto alla donna amata, o per meglio dire nella propria condizione di innamorato, come informa l'anonima voce narrante:
Io so che Michè
ha voluto morire perché
gli restasse il ricordo
del bene profondo
che aveva per te.
Appare già qui un tema canonico della scrittura letteraria, e poetica in particolare: vale a dire il binomio (soprattutto, ma non solo leopardiano) amore-morte, che sarà presente - con modulazioni e, quindi, suggestioni diverse - in altre composizioni di De André, da Marinella a Geordie, fino a Un malato di cuore, per citare un brano di dieci anni dopo.
Mille considerazioni si potrebbero svolgere intorno a questo vero e proprio topos della letteratura mondiale, ma molto più semplicemente mi permetto di prendere a prestito un'osservazione del filosofo Fernando Savater, il quale scrive: "ciò ch'è incompatibile con la morte non è vivere (la vita esige la morte) ma amare: l'amore disconosce la forza della morte, anche se amiamo consci della nostra mortalità e di quelli che amiamo". Michè vive insomma il distacco dall'amata come un'esperienza di morte e, non riuscendo a elaborare questo "lutto", col suo gesto intende sovrastare la morte fisica rendendo irreversibile e quindi eterno (in un senso tutto ideale, ovviamente) il proprio amore.
Fra gli altri aspetti della canzone, oltre all'implicita ma ferma denuncia dell'intransigenza inappellabile della giustizia ("la Corte decise così"), c'è da sottolineare la mancata indulgenza da parte della Chiesa che nega(va) i sacramenti a un suicida:
Domani alle tre
nella fossa comune cadrà
senza il prete e la messa
perché di un suicida
non hanno pietà.
A soli ventun anni, De André mostra già quella spontanea, innata propensione alla solidarietà, alla comprensione, alla tolleranza, che caratterizzerà la sua opera e la sua stessa vita.
Del resto, è molto probabile che il coltissimo De André avesse in mente la concezione stoica, che concepiva il suicidio non come un segno di disperazione e di debolezza, ma come un atto di coraggio e di forza, come sappiamo ad esempio da Seneca: "Alcuni che fanno professione di saggezza dicono che non è permesso attentare alla vita e giudicano empietà il suicidio e ammoniscono che bisogna attendere il termine prescritto dalla natura. Chi dice così non vede che chiude la via della libertà. L'eterna legge compì la sua opera migliore quando ci assegnò una sola entrata nella vita e molte uscite dalla vita. È questa l'unica ragione per la quale non possiamo dolerci dell'esistenza: ché essa non trattiene nessuno, e nessuno è infelice se non per colpa sua. Piace la vita? Vivi. Non piace? Ti è lecito ritornare donde venisti".
E forse aveva anche presente la più recente e cruda annotazione di Albert Camus, secondo cui "vi è solo un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia".
Si può forse sostenere che, in mancanza di un senso oggettivamente dato, la vita è degna di essere vissuta soltanto se è l'uomo a potergliene assegnare uno: nel caso di Michè, era la sua Marì a sostanziare di senso la sua vita. Di qui la scelta, ponderata e consapevole, del suicidio.

Sul piano retorico risalta la ripresa anaforica del nome del protagonista, preceduta da variazioni lessicali: "Stanotte Michè", "Nel buio Michè", "Io so che Michè", "Se pure Michè" (vv. 9, 14, 19, 32), nonché la vera e propria anafora collocata nel finale: "Domani alle tre" (vv. 37 e 42), volta a fissare in un momento preciso - di un tempo peraltro assente - l'inesorabile e inumano trattamento post-mortem riservato allo sventurato Michè.
A dar enfasi a questa breve cronaca-denuncia concorrono vari iperbati 40: "con una corda sul collo / freddo pendeva Michè" (vv. 3-4), "lo avevan perciò condannato / vent'anni in prigione a marcir" (vv. 28-29), "però adesso che lui s'è impiccato / la porta gli devono aprir" (vv. 30-31), "domani alle tre / nella fossa comune cadrà" (37-38), "perché di un suicida / non hanno pietà" (vv. 40-41), "domani alle tre / nella terra bagnata sarà" (vv. 42-43).

ASPETTI METRICI
Quattro strofe di diversa lunghezza: I e III di otto versi, II e IV di quindici.
Anche i versi sono di varia misura, con una maggiore regolarità nelle strofe I (tutti ottonari, di cui piani i dispari e tronchi i pari) e III (tutti novenari, tranne il settimo che è un decasillabo; anche qui con alternanza di piani e tronchi). Più vari (senari, settenari e decasillabi) i versi delle strofe II e IV: ma da notare che la disposizione e l'andamento ritmico sono perfettamente simmetrici.
Un uso sapiente delle rime - riconoscibile anche nei punti in cui all'identità fonica rinuncia - permette all'autore di evitare il rischio della monotonia insito nel ricorso eccessivo alle parole tronche (in linea col nome del protagonista, ma con terminazioni che investono tutte le vocali con l'eccezione della u). Nelle strofe più brevi lo schema è a rima alternata: ma se nella strofa III tale schema è preciso, nella I sono in rima perfetta soltanto i versi pari mentre fra quelli dispari prevale un complesso gioco di assonanze nei versi 1, 3, 5 ("cella" / "collo / "gallo"), e resta irrelato il v. 7 ("prigione"), che trova comunque rispondenza con la rima identica del v. 4 della strofa II e con la rima al mezzo del v. 6 della strofa III. Le strofe più lunghe presentano maggiori analogie: innanzi tutto, entrambe sono costituite da tre periodi di cinque versi ciascuno; ma se nella strofa II tali versi sono raggruppati secondo lo schema AABCA, nella strofa finale questo schema viene conservato per il primo periodo, mentre negli ultimi due si trasforma in ABCDB.

[Giuseppe Cirigliano, Il "primo" De André, Emmelibri, Novara, 2004]