Un sorriso beffardo e un ironia corrosiva pervadono Il testamento dal primo all'ultimo verso: anzi, per esser più precisi, al penultimo, dato che il verso di chiusura (che può essere letto subito e autonomamente a mo' di aforisma) è carico di quell'amarezza che, se pur schermata o attenuata dal tono complessivamente scherzoso e irridente, informa di sé l'intero componimento. Né potrebbe essere altrimenti, dato che chi parla si sta approssimando alla morte e ne paventa il repentino sopraggiungere:
Sorella morte, lasciami il tempo
di terminare il mio testamento.
E per quanto egli si sforzi di esorcizzare il pensiero del trapasso con l'umorismo e lo scherno, tale pensiero esercita pur sempre il suo malinconico effetto.

Quanto alla storia, al capezzale di "un moribondo" (e in parte nella sua mente) si avvicendano vari personaggi, a ciascuno dei quali egli dichiara di lasciare qualcosa "in eredità": ma ciò che lascia non sono che titoli inservibili, elargiti oltre tutto con un tono palesemente canzonatorio, tanto ch'egli stesso intuisce – ma senza temerla – la maledizione che i beneficiari del derisorio lascito gli lanceranno dopo la sua morte:
Non maleditemi, non serve a niente
tanto all'inferno ci sarò già.
Lascia infatti "un impiego da ragioniere" ai "protettori delle battone"; ad una di queste (forse la sua prediletta) assegna "un attestato di benemerenza" che le assicuri un matrimonio felice (per lei; ma anche per l'ignaro suo sposo); al "becchino" consegna "la vanga d'oro", a parziale risarcimento morale del suo deplorato lavoro; e così via.
L'unico pensiero veramente serio e gentile è rivolto alla donna che lo amò e che gli "offrì il suo pianto":
Se dalla carne mia, già corrosa,
dove il mio cuore ha battuto il tempo
dovesse nascere un giorno una rosa
la do alla donna che mi offrì il suo pianto.
Per ogni palpito del suo cuore
le rendo un petalo rosso d'amore.
E proprio nella strofa dedicata alla donna si evidenzia il distacco dall'amato Villon, che col suo celebre Testament costituisce fin dal titolo la fonte principale di questa canzone. Infatti, l'atteggiamento del grande poeta francese verso la propria amata è diametralmente opposto a quello tenero e galante del nostro "moribondo". La lassa XC del Testament recita infatti:
Item, m'amour, ma chiere Rose,
Ne luy laisse ne cuer ne foye ;
Elle ameroit mieulx autre chose,
Combien qu'elle ait assez monnoye.
Quoy? une grant bource de soye,
Plaine d'escuz, parfonde et large ;
Mais pendu soit il, que je soye,
Qui luy laira escu en targe.
Ovvero:
Così al mio amore, alla mia cara Rosa,
non lascio né cuore né fegato;
ella preferirebbe di più un'altra cosa,
malgrado abbia molta moneta.
Cosa? una grande borsa di seta,
piena di scudi, profonda e larga;
ma sia impiccato, me compreso,
chiunque le lascerà scudo o targa.
La strofa finale, la più meditativa e commossa, richiama alla mente il destino che attende tutti gli uomini:
Cari fratelli dell'altra sponda
cantammo in coro giù sulla terra,
amammo in cento l'identica donna,
partimmo in mille per la stessa guerra.
Questo ricordo non vi consoli,
quando si muore, si muore soli.
Per quante esperienze, gradite o terribili, gli uomini possano condividere coi propri simili, quella definitiva, che ne conchiude e preclude ogni altra, bisogna affrontarla da soli, e nessuno può viverla per un altro. Eppure, essa è fatalmente – per quanto temuta o accettata con serenità – la sola esperienza condivisa da tutti. Come afferma il filosofo Fernando Savater: "La certezza della morte è l'unico segreto che conosciamo a proposito di tutti i nostri simili e di noi stessi". *
A proposito dello statico e terribile verso finale:
quando si muore si muore soli
Romano Giuffrida, fervido estimatore e grande esperto dell'opera di De André, ha scritto, rievocando con tono accorato e coinvolgente momenti e suggestioni della propria adolescenza: "può esserci affermazione più semplice, più vera e, nel contempo, più insopportabile e, quindi, più dimenticata, più rimossa, più nascosta?". **
Si tratta ovviamente di una domanda retorica, e l'implicita risposta è evidentemente: no, non può esserci... E tuttavia quel verso lascia trapelare, pur nella tristezza che lo avvolge, una serenità derivante dall'accettazione o almeno dalla virile rassegnazione di fronte a ciò che non si può evitare. Tutto sommato la morte, pur essendone la negazione empirica, fa parte della vita, le è consustanziale (o consussistente, se l'aggettivo precedente può apparire improprio o blasfemo). C'è, perché c'è la vita. Per i nati è necessario morire e ai morti non è dato più vivere; ma i morti hanno vissuto e i vivi dovranno morire (e mai nessuno potrà eliminare ciò ch'è stato o impedire ciò che sarà). Vita e morte attestano quell'armonia dei contrari che il grande Eraclito colse e insegnò venticinque secoli fa.

A livello retorico spicca la ripresa anaforica del verso iniziale: "Quando la morte mi chiamerà", che torna identico alle strofe VII e X, a sottolineare l'ineluttabilità dell’evento.

ASPETTI METRICI
Il testo è composto da undici strofe: alcune di sei versi (I, IV, VII, X), altre di otto (II, III, V, VI, VIII, IX, XI); ma di queste ultime, soltanto la strofa IX è composta realmente di otto versi, poiché in tutte le altre i due versi finali, per motivi di melodia, riprendono sempre i due precedenti.
Quanto alle rime, si nota una certa varietà. Lo schema metrico delle strofe legate da anafora (I, VII, X) è AABABA, con i primi due versi a rima baciata e gli altri quattro a rima alternata, anche se soltanto nella X tale schema è perfetto. Nelle strofe I e VII, infatti, il terzo e il quinto verso presentano in entrambi i casi rime imperfette: "testamento" / "niente", "sola" / "solo". Lo schema portante delle strofe II, III, V, IX è invece ABBACC, cioè quattro versi a rima incrociata e i due di chiusura a rima baciata. La strofa IV ha invece uno schema a rima baciata, ma con assonanza tonica tra i primi due versi ("tempo" / "testamento"); la VI ha schema ABABCC, ma con assonanza atona fra i versi 2 e 4 ("letto" / "lotto"); la VIII si richiama alla VI, ma coi vv. 2 e 4 irrelati ("tempo" / "pianto"); la XI ha lo stesso schema ma con assonanza tonica fra primo e terzo verso ("sponda" / "donna").

NOTE
* [F. Savater, Dizionario filosofico, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 143]
Centinaia, migliaia di riflessioni sono state svolte intorno alla morte, motivo dominante del pensiero filosofico e letterario, ma anche quotidiano, forse eguagliato e superato soltanto dall'amore. A tutti è noto il ruolo di "livella" ad essa assegnato dal grande Totò: "'A morte 'o ssàje ched'è? È una livella" [Totò, 'A livella e poesie d'amore, Newton Compton, Roma, 1995, p. 35]. Con identico intento Guido Gozzano la definisce "l'Eguagliatrice" [La Signorina Felicita, v. 163]. Il filosofo Jankélévitch vede in essa "la completa uguaglianza degli ineguali" [Pensare la morte?, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995, p. 103]. Ma già il grande Orazio, nell'ode A Sestio (I, 4, vv. 13-14), aveva scritto: "Pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tabernas / regumque turris", ovvero: "La pallida morte batte con piede uguale ai poveri tuguri / e alle torri dei príncipi". Sul riconoscimento di questa sua funzione, direi che non ci sono (né potrebbero esserci) contrasti... differente, soprattutto in ambito filosofico, è invece l'atteggiamento di fronte a questo ineluttabile e temuto evento. Epicuro ne addita e sottolinea l'inconsistenza: "La morte, il più atroce di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c'è, e quando c'è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c'è, i morti non sono più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive" [Epicuro, Lettera sulla felicità (a Meneceo), Stampa alternativa, Milano, 1992, p. 9]. Seneca ne coglie invece la presenza assidua e inavvertita lungo il filo dei giorni: "Noi pensiamo alla morte come a qualcosa che sta davanti a noi, mentre in gran parte è già alle nostre spalle: tutta l'esistenza trascorsa è già in suo potere [Lettera a Lucilio, in Il tempo, Stampa alternativa, Milano 1992, p. 4]. E a Seneca fanno eco Michel de Montaigne: "Perché temi il tuo ultimo giorno? Esso non contribuisce alla tua morte più di ciascuno degli altri" [Saggi, Mondadori, Milano, 1970, p. 123] e, ai nostri giorni, Martin Heidegger: "La morte è un modo di essere che l'Esserci assume da quando c'è. L'uomo, appena nato, è già abbastanza vecchio per morire" [Essere e tempo, Utet, Torino, 1978, p. 364]. A sua volta, Vauvenargues denuncia l'influenza nefasta che il pensiero della morte esercita sulla nostra esistenza: "Il pensiero della morte ci inganna, perché ci fa dimenticare di vivere" [Vauvenargues, Riflessioni e massime TEA, Milano, 1989, p. 33]. E si potrebbe continuare...
** [R. Giuffrida, De André: Gli occhi della memoria, Eléuthera, Milano, 2002, p. 24]

[Giuseppe Cirigliano, Il "primo" De André, Emmelibri, Novara, 2004]