La ballata degli impiccati prende il titolo da L'epitaphe Villon (Ballade des pendus), di François de Montcorbier, meglio conosciuto col nome di François Villon [...]. La ballata occupa una posizione centrale nell'album di cui fa parte dal punto di vista contenutistico: il primo verso di questa canzone, infatti, dà il titolo al disco. L'inizio è la cruda descrizione dei momenti finali degli impiccati, che muoiono con in gola l'ultima bestemmia, ma il messaggio che vogliono lasciare va al di là della loro condizione: è l'affermazione dell'uguaglianza di tutti gli uomini davanti al male; nessuno è colpevole, nessuno è innocente, nessuno ha il diritto di giudicare un proprio simile.
Nella canzone, gli impiccati augurano a chi li ha derisi di morire nel loro stesso modo; a chi li ha dimenticati, di morire ad un passo dalla meta; infine ad una donna che si è vergognata del loro ricordo, l'augurio è di perdere al più presto la bellezza e di essere sfigurata, senza appello, dal tempo. Il finale è una minaccia per chi vive ancora: la nostra morte non è la fine, ma soltanto una sospensione che proprio voi riprenderete. [Matteo Borsani - Luca Maciacchini, Anima salva, pp. 42-43] Molti sono i fili che la legano alla Ballade des pendus di Villon, primo fra tutti il fatto che l'impiccato non è più il colpevole, giustamente o ingiustamente punito, ma diviene un'allegoria, come la carta dei Tarocchi, il simbolo della condizione umana, sempre sul bordo del male e della morte. Comune, nei testi di Villon e De André, è la descrizione di particolari aspri, dei segni di un'agonia crudele, e l'invito a non sentirsi estranei alla sorte degli impiccati, perché, a ben guardare, c'è poco merito nella virtù e poca colpa nell'errore, e chi si crede incontaminato dal male, al punto da proseguire "tranquillo il cammino", commette anche lui un peccato contro l'uomo". [Doriano Fasoli, Fabrizio De André. Passaggi di tempo, Edizioni Associate, Roma, 1999, p. 118] LaBallata degli impiccati è vagamente ispirita all'épitaphe (Ballade des pendus) di François Villon. Secondo tradizione Villon scrisse mentre attendeva di salire sul patibolo (pena poi commutata in un esilio di dieci anni). Fabrizio muta essenzialmente la descrizione ossianica macabra del poeta francese e soprattutto sovverte la finalità del poemetto. L'épitaphe è un ultimo canto accorato per susictare pietà e perdono; è una richiesta di preghiere da parte dei vivi per ottenere la misericordia divina. Niente di tutto questo in Fabrizio. La Ballata degli impiccati non parla di perdono, non si rivolge a Dio: è contestazione rabbiosa, impotente, giustificazione personale e concreta di una vita ed è perfino rassegnazione alla fine imminente. [Roberto Vecchioni, in Volammo davvero (a cura di Elena Valdini", RCS Libri, Milano 2007, p. 159. Il testo riprende una lezione su De André, tenuta dal professor Vecchioni in diverse università italiane.] |