Talor, mentre cammino per le strade1
della città tumultuosa solo,
mi dimentico il mio destino d'essere
uomo tra gli altri, e, come smemorato,
5 anzi tratto fuor di me stesso, guardo
la gente con aperti estranei occhi2.
M'occupa allora un puerile, un vago
senso di sofferenza e d'ansietà
come per mano che mi opprima il cuore.
10 Fronti calve di vecchi, inconsapevoli
occhi di bimbi, facce consuete
di nati a faticare e a riprodursi,
facce volpine stupide beate,
facce ambigue di preti, pitturate
15 facce di meretrici3, entro il cervello
mi s'imprimono dolorosamente.
E conosco l'inganno pel qual vivono,
il dolore che mise quella piega
sul loro labbro, le speranze sempre
20 deluse4
e l'inutilità della lor vita
amara e il lor destino ultimo, il buio.
Ché ciascuno di loro porta seco5
la condanna d'esistere: ma vanno
25 dimentichi di ciò e di tutto, ognuno
occupato dall'attimo che passa,
distratto dal suo vizio prediletto.
Provo un disagio simile a chi veda
inseguire farfalle lungo l'orlo
30 d'un precipizio, od una compagnia
di strani condannati sorridenti.
E se poco ciò dura, io veramente
in quell'attimo dentro m'impauro
a vedere che gli uomini son tanti.
[da Pianissimo (1914), ora in L'opera in versi e in prosa, Garzanti, Milano 1999]
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