Il tempo di Fabrizio De André è ancora il nostro tempo, eppure la sua opera possiede già il prestigio, la rilevanza e il fascino di un classico, se per classicità, eludendo complicate e sottili discussioni accademiche, intendiamo apoditticamente non tanto o non soltanto quell'unità di forma e contenuto che fa di un'opera un modello da imitare e un oggetto da custodire e tramandare, ma anche e soprattutto la permanente vitalità di quell'opera, la sua pervasiva presenza e influenza nell'attualità. Proprio sotto quest'ultimo profilo, per una strana illusione prospettica, sembra che l'opera di De André sia tanto più vicina alla nostra sensibilità quanto più il momento del suo addio – quel triste e ormai lontano 11 gennaio 1999 – si allontana.
Il personaggio, o meglio l'uomo, ha poi una statura morale così discreta ed insieme imponente da farlo annoverare – lui, che certo maestro non volle mai essere, ma soltanto compagno e "amico fragile" – tra i maîtres à penser delle attuali (e prevedibilmente ancor più delle future) generazioni. Le sue canzoni, così tangibili e realissime, così intrise di gioia e sofferenza, di verità e utopia, trascendono infatti il tempo e lo spazio contingenti, aprendosi a prospettive diverse e lontane, poiché la diversità e la lontananza sono categorie che appartengono sì al tempo e allo spazio, ma non intaccano – per usare un'espressione opinabile, e comunque piuttosto demodée dopo l'esistenzialismo novecentesco – l'essenza umana. Tali canzoni appaiono perciò fortemente ancorate al presente e, al tempo stesso, proiettate verso l'ideale, cioè nella realtà, o meglio nella verità, del sogno. [omissis] Appassionato lettore di Bakunin e Stirner, fervido ammiratore di Villon e Mutis, estasiato ascoltatore di Brassens e Cohen – De André ha condiviso coi suoi autori preferiti una visione del mondo scevra di menzogne e violenze, avversa istintualmente alle iniquità e ai compromessi: un mondo sognato e per ciò tanto più vero di quello reale se (com'è evidente, anche se in genere non ci si pensa) la verità risiede nel pensiero e nel linguaggio, non nella realtà. [omissis] La consapevolezza della superiorità ideologica e morale – e quindi della potenziale ineluttabilità, teorica se non storica – dell'anarchia, colloca Fabrizio De André fra i grandi "spiriti liberi" di ogni tempo: da Socrate a Montaigne, da Nietzsche a Russell, tanto per fare alcuni esempi che riguardano la filosofia, ovvero la disciplina in cui più naturale è, o dovrebbe essere, la presenza di personaggi del genere. Ma forse, per non equivocare sul concetto di "spirito libero", rischiando di confinarlo fra quelle espressioni ambigue buone a tutti gli usi, e quindi sostanzialmente inutili se non pericolose, converrà richiamare quanto scrisse in proposito proprio Nietzsche: "Si chiama spirito libero colui che pensa diversamente da come, in base alla sua origine, al suo ambiente, al suo stato e ufficio o in base alle opinioni dominanti del tempo, ci si aspetterebbe che egli pensasse. Egli è l'eccezione, gli spiriti vincolati sono la regola". [omissis] La sua opera e la sua vita testimoniano della sua impressionante capacità di riflettere sul senso e sul valore delle condizioni date, delle opinioni dominanti, dei comportamenti codificati, con una determinazione e una forza di carattere che a un livello superficiale collidono – ma in un senso più vero e profondo coincidono – con l’attitudine al dubbio che sempre egli manifestò, soprattutto in ambito morale. E ciò fin dagli inizi, come attestano i versi de La città vecchia. [omissis] |