Il contenuto di questo scritto, appartenente ai Parerga e paralipomena, è chiaramente indicato dal titolo. Si tratta di un argomento tutt'altro che nuovo, come nuova non è, appunto, la presenza del dolore nel mondo. Ma, come al solito, magistrale e pressoché inconfutabile è l'analisi che Schopenhauer ne offre. Tale analisi si concentra, da un lato, sul rapporto gioia/sofferenza (considerato in termini quantitativi) e, dall'altro, sul ruolo giocato dal pensiero nella considerazione (qualitativa) di tale rapporto.
Noi, di solito, troviamo le gioie molto al di sotto delle nostre aspettative e le sofferenze molto al di sopra di esse.
Chi vuole brevemente vagliare l'affermazione che nel mondo il piacere prevalga sulla sofferenza (o che almeno le due cose si bilàncino), paragoni il sentimento di un animale che ne divora un altro con il sentimento di quest'ultimo.
La felicità nel corso di tutta una determinata vita non è quantificabile per le gioie e i piaceri che essa contiene, ma per l'assenza del dolore. A questo punto però la sorte degli animali appare più sopportabile di quella dell'uomo. Osserviamole entrambe da vicino.
Per quanto siano varie le forme nelle quali la felicità e l'infelicità dell'uomo si manifestano e lo incitano a seguirle o a sfuggirle, la base di tutto ciò è il piacere o il dolore del corpo. Questa base è molto ridotta: è la salute, il nutrimento, il riparo dall'umidità e dal freddo, e la soddisfazione sessuale; oppure la mancanza di tutto ciò. Quindi l'uomo non ricava, dal piacere fisico, niente più dell'animale, se non per il fatto che il suo sistema nervoso è più sviluppato e così accresce il sentimento di ogni piacere, ma anche di ogni sofferenza. Ma quanto più forti sono gli affetti suscitati in lui, rispetto a quelli dell'animale! In che modo incomparabilmente più violento e profondo viene scosso il suo animo! - per poi, in fondo, raggiungere solo lo stesso risultato: salute, nutrimento, protezione del corpo e così via.
Ciò deriva, prima di tutto, dal fatto che in lui ogni cosa è enormemente intensificata dal pensare all'assenza e al futuro, per cui soltanto per questo la preoccupazione, la paura e la speranza entrano a far parte dell'esistenza; queste però lo mettono molto di più alla prova di quanto possa fare la realtà presente dei piaceri e dei dolori, a cui l'animale è limitato. A quest'ultimo infatti manca, con la riflessione, il condensatore delle gioie e dei dolori, che non possono quindi accumularsi, come accade per l'uomo tramite il ricordo e la previsione: nell'animale il dolore del presente, anche se si ripete innumerevoli volte, rimane sempre nient'altro che, come la prima volta, il dolore del presente e non può sommarsi. Da qui l'invidiabile spensieratezza e tranquillità d'animo degli animali. Contrariamente, con la riflessione e ciò che ad essa è legato, si sviluppa nell'uomo, da quegli stessi elementi di piacere e di dolore che l'animale ha in comune con lui, un'intensificazione del sentimento della propria felicità e infelicità, che può portare alla momentanea, talvolta persino mortale esaltazione, o al disperato suicidio. Considerato più da vicino, il corso delle cose è il seguente: l'uomo intensifica le sue necessità, originariamente poco più difficili da soddisfare di quelle dell'animale, con il proposito di intensificare il piacere: da qui il lusso, le leccornie, il tabacco, le bevande alcoliche, il fasto e tutto ciò che ne fa parte. Poi si aggiunge, sempre come conseguenza della riflessione, una fonte di piacere e dolore accessibile solo a lui e che lo impegna oltremisura, anzi forse più di tutte le altre, vale a dire l'ambizione e il sentimento dell'onore e della vergogna: insomma la sua opinione su quella che gli altri hanno di lui. Questo sarà, d'ora in poi, sotto molteplici e strane forme, lo scopo di quasi tutte le sue ambizioni che vadano oltre il piacere o il dolore fisico. Anche se è superiore all'animale per via dei piaceri puramente intellettuali, che permettono molte sfumature, dal più semplice passatempo e dalla conversazione fino alle prestazioni intellettuali più elevate, come contrappeso a tutto ciò, tra le sofferenze compare in lui la noia, che l'animale, almeno allo stato naturale, non conosce, ma dalla quale solo gli animali più intelligenti allo stato domestico vengono colti in modo lieve. Mentre per l'uomo la noia diventa un vero flagello, come si vede particolarmente in quell'esercito di disgraziati che non hanno mai avuto altro scopo che quello di riempire la loro borsa e mai la testa, e per i quali proprio il loro benessere diventa una punizione, consegnandoli al martirio della noia, per sfuggire alla quale essi corrono, si intrufolano, viaggiano dappertutto e ovunque arrivino si informano preoccupati delle risorse del luogo, come il bisognoso si informa delle fonti di aiuto: perché indubbiamente il bisogno e la noia sono due poli della vita umana. Infine, è necessario aggiungere che per l'uomo alla soddisfazione sessuale si collega una sua propria scelta molto ostinata, che di tanto in tanto si intensifica fino ad arrivare a un amore più o meno passionale che diventa per lui una fonte di lunghe sofferenze e brevi piaceri.
Tuttavia non stupisce il fatto che, mediante l'aggiunta del pensare, cosa che manca all'animale, sull'esile base dei dolori e dei piaceri che anche l'animale possiede, si elevi l'edificio alto ed esteso della felicità e dell'infelicità dell'uomo, in rapporto alle quali la natura umana è esposta ad affetti così forti, a passioni e scosse tali da lasciare l'impronta leggibile nei tratti del suo viso; mentre in fondo e in realtà si tratta delle stesse cose che colpiscono anche l'animale, ma con un dispendio incomparabilmente minore di affetti e tormenti. Ma con tutto ciò, la misura del dolore nell'uomo cresce molto di più di quella del piacere e viene particolarmente acuita perché egli sa veramente di morire; mentre l'animale rifugge la morte solo istintivamente, senza propriamente conoscerla e quindi senza considerarla realmente, come l'uomo, che ha sempre questa prospettiva davanti a sé. [...]
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A questo punto dell'analisi Schopenhauer riconosce che
ciò che rende la vita dell'uomo più dolorosa di quella dell'animale è la maggior facoltà conoscitiva.
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E conclude con una visione estremamente pessimistica, intrisa di ateismo e fatalismo. Scrive infatti:
Se si immagina, per quanto approssimativamente, la somma di bisogni, sofferenze e dolori di ogni genere che il sole illumina lungo il suo cammino, si ammetterà che sarebbe stato molto meglio se esso, come è accaduto sulla luna, non avesse creato sulla terra il fenomeno della vita.
Si può anche considerare la nostra vita come un episodio inutilmente perturbatore nella beata quiete del nulla.
Ci si immagini, per una volta, che l'atto procreativo non sia un bisogno né che sia accompagnato dal piacere, ma che sia un fatto di pura, razionale riflessione; potrebbe, allora, ancora esistere il genere umano? Piuttosto, non avrebbe ognuno talmente compassione della generazione a venire, da risparmiarle volentieri il fardello dell'esistenza?
Contro una visione del mondo come opera riuscita di un essere onnisciente, infinitamente buono e allo stesso tempo onnipotente, da una parte grida troppo forte la miseria, della quale il mondo è pieno, dall'altra l'evidente imperfezione, anzi burlesca distorsione, della più perfetta delle sue manifestazioni, la natura umana. Qui è una dissonanza irresolvibile.
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