• Questo libro raccoglie quattro "colloqui" tenuti dall'autore con altrettanti intervistatori. La tesi di fondo in esso sostenuta è che

    non c'è niente da dire sulla morte. Ma per dire, per spiegare che non c'è niente da dire, occorrono molte parole.


    Tesi sorprendente e giustissima, che rende perfettamente la dimensione problematica della conoscenza di un'esperienza alla quale nessuno può sottrarsi e che tuttavia rimane per tutti imprendibile e inconcepibile:

    Ho coscienza della morte e so che morirò - ma non ci credo. Così come tutti gli uomini sanno di dover morire - ma non ci credono.


    Questa posizione si giustifica con l'assoluta incomparabilità tra vita e morte:

    La vita umana comincia con la nascita e termina con la morte. Ma tra queste due cose non c'è niente in comune, non sono mai date insieme in un'esperienza simultanea. E se si fa un confronto, benché siano incomparabili, è solo per dire che fra l'una e l'altra tutto cambia completamente, poiché nella nascita il nulla sta prima, mentre nella morte sta dopo. Perciò la nascita e la morte non possono assolutamente essere paragonate.


    Nascita e morte sono tuttavia legate da un rapporto di totale inerenza, anche se il momento ineluttabile della morte è imprevedibile.

    Da una parte, morire un giorno o l'altro è ineluttabile: l'uomo è un essere destinato a morire. Dall'altra, però, morire un giorno o l'altro non è mai necessario. Cioè: da un punto di vista logico non è mai necessario - eppure, alla lunga, non morire mai sarebbe assurdo. [...] In quale momento è necessario morire? Ebbene, non è mai necessario - e tuttavia un giorno si deve morire.


    Il legame vita-morte è così stretto che - come Jankélévitch chiarisce - soltanto la presenza della morte conferisce senso alla vita. Scrive infatti:

    È inutile far troppe speculazioni, meditare sul senso dell'esistenza in generale o della mia in particolare - perché questo senso non lo troverò mai.


    È invece, paradossalmente, la morte ad assegnare un senso alla vita:

    La morte è la condizione stessa dell'esistenza. In ciò mi rifaccio a tutti coloro che hanno detto che è la morte a dar senso alla vita, proprio sottraendole tale senso. Essa è il non-senso che dà un senso negando questo senso. [...] È l'assenza di senso a dare un senso alla vita. Beninteso, in certo qual modo, e cioè da un primo punto di vista, la morte toglie alla vita il suo senso: poiché devo morire, e questo è il nulla - se ammetto il nulla -, allora non vado da nessuna parte. Dunque, l'assenza di un al di là fa sfociare la mia vita nel vuoto, nel nulla. Di conseguenza la mia vita non scorre in nessuna direzione. Posso solo pensare ai miei figli, alla mia discendenza: è l'unica speranza che mi resta. Ma sotto un altro riguardo invece, cioè da un altro punto di vista opposto al primo, il fatto di non poter dire dove vado - perché in effetti non vado da nessuna parte - fa sì che la mia vita mi appaia infinitamente preziosa, la rende miracolosa e profondamente carica di mistero. Certo, questi termini sono poco razionali. Ma in definitiva credo si possa parlare del senso del non senso, del senso dell'assenza di senso.


    Jankélévitch sa bene, tuttavia, che l'assenza di senso quale apportatrice di senso non è sufficiente, in generale, per accettare di buon grado la morte. Perché l'idea della morte genera per lo più un sentimento di angoscia, sulla cui origine il filosofo ha un'idea ben precisa.

    Contrariamente a quel che le religioni ci insegnano, e le persone comunemente dicono, credo che l'angoscia della morte non sia l'angoscia dell'al di là. Forse era così nel Medioevo e nelle società molto religiose, ma secondo me l'angoscia della morte non riguarda l'al di là, bensì il passaggio da qualcosa a qualcos'altro. È l'angoscia di qualcosa di irrappresentabile: un'esperienza che non è stata mai fatta e che si fa sempre per la prima e l'ultima volta, giacché la prima è anche, insieme, l'ultima. È l'accesso a un ordine del tutto differente, o a niente del tutto. Quale può essere il più grande dolore del mondo? La più grande trasformazione del mondo? Non si tratta neppure di una trasformazione, perché la trasformazione è il passaggio da una forma a un'altra, come dice la parola stessa "trans-formazione", mentre la morte è il passaggio all'assenza di forma. Perciò quest'idea è irrappresentabile: non esprime un rapporto empirico. È l'accesso a qualcosa di totalmente differente, o a niente del tutto, al nulla. Dunque non è l'angoscia dell'al di là, perché l'angoscia dell'al di là è l'angoscia di un'altra vita, di un altro mondo, differente, migliore o peggiore che sia. [...] Ma non si può dire neppure che sia differente, non si può dire neppure che sia altro. Perché l'altro implica lo stesso: l'altro è altro nell'ordine dello stesso. Per esempio, poniamo che ci venga presentato qualcuno di una razza sconosciuta, o anche un animale straordinario, che non abbiamo mai visto - ebbene, è si altro, ma assolutamente altro nell'ordine del medesimo. La morte invece è l'altro senza alcun punto di riferimento, senza relazione a niente nell'al di qua: è una sorta di al di là assoluto, del quale le religioni non ci parlano.[...] La morte non è il passaggio da un ordine a un altro; è il passaggio da qualcosa a niente del tutto. Non è neppure un passaggio, è qualcosa di infinito: una finestra che non dà su niente. Allora il pensiero si inabissa, si autosopprime quando tenta di rappresentarsi tutto ciò. [...] La morte è lì, mostruosa, unica nel suo genere, in rapporto a niente del tutto: letteralmente impensabile, assurda. In relazione alla morte la cosa migliore che posso fare è cercare di non pensarci, in primo luogo perché non c'è niente da pensare, niente da dire - in tal senso la morte è una sfida al discorso e al pensiero.