• Il mito di Sisifo, pubblicato nel 1942 (trad. it. 1947), si apre con un'affermazione sconcertante, o quantomeno provocatoria. Scrive infatti Camus:

    Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Giudico dunque che quella sul senso della vita è la più urgente delle domande. [...]
    Un gesto come questo si prepara nel silenzio del cuore, allo stesso modo che una grande opera. L'uomo stesso lo ignora; ma, una sera, si spara o si annega.


    Sulle "cause" di tale gesto l'autore si limita a osservare che ve ne sono molte, e sostiene che

    raramente ci si uccide per riflessione. Ciò che scatena la crisi è quasi sempre incontrollabile.
    Ma se è difficile fissare l'istante preciso, il sottile processo per cui lo spirito ha puntato sulla morte, è più facile trarre dal gesto stesso le conseguenze che questo presuppone. Uccidersi, in un certo senso, è confessare: confessare che si è superati dalla vita o che non la si è compresa; confessare che non vale la pena. Vivere, naturalmente, non è mai facile. Si continua a fare i gesti che l'esistenza comanda, per molte ragioni, la prima delle quali è l'abitudine. Morire volontariamente presuppone che si sia riconosciuto, anche istintivamente, il carattere inconsistente di tale abitudine, la mancanza di ogni profonda ragione di vivere, l'indole insensata di questa quotidiana agitazione e l'inutilità della sofferenza.


    Queste parole non devono far pensare che secondo Camus il suicidio sia così semplice da pensare e attuare. Infatti,

    nell'attaccamento di un uomo alla vita vi è qualcosa di più forte di tutte le miserie del mondo. Il giudizio del corpo vale quanto quello dello spirito, e il corpo indietreggia davanti all'annientamento. Noi prendiamo l'abitudine di vivere prima di acquistare quella di pensare. Nella corsa che ci precipita ogni giorno un po' più verso la morte, il corpo conserva questo irreparabile vantaggio.


    Perché sorga il pensiero del suicidio occorre percepire l'assurdo. E a questa possibilità siamo tutti, involontariamente, disponibili. Infatti

    il senso dell'assurdo, alla svolta di una qualunque vita, può imbattersi faccia a faccia con un uomo qualsiasi.


    La descrizione di questa possibilità è chiarissima e perfettamente riconoscibile nella quotidianità:

    Tutte le grandi azioni e tutti i grandi pensieri hanno un inizio di poco peso. Così è l'assurdo. La levata, il tram, le quattro ore di lavoro, la cena, il sonno e lo svolgersi del lunedì martedì mercoledì giovedì venerdì esabato sullo stesso ritmo... questo cammino viene seguito senza difficoltà la maggior parte del tempo. Soltanto, un giorno, sorge il perché e tutto comincia in una stanchezza colorata di stupore. "Comincia", questo è importante. La stanchezza sta al termine degli atti di una vita automatica, ma inaugura al tempo stesso il movimento della coscienza, lo desta e provoca il seguito, che consiste nel ritorno incosciente alla catenao nel risveglio definitivo. Dopo il risveglio viene, col tempo, la conseguenza: suicidio o ristabilimento.


    Lo stesso Camus è consapevole dell'ovvietà di questa descrizione. Scrive:

    Le presenti osservazioni non hanno nulla di originale, ma sono evidenti: bastano per un certo tempo, quando si tratti di studiare sommariamente le origini dell'assurdo. La semplice "inquietudine", come dice Heidegger, è all'origine di tutto.


    A questa prima inquietudine, può subentrare un sentimento più profondo e pericoloso. Aggiunge infatti Camus:

    Scendiamo ancora di un grado, ed ecco l'estraneità: accorgersi che il mondo è "denso", intravedere fino a che punto una pietra sia estranea e per noi irriducibile, con quale intensità la natura, un paesaggio possano sottrarsi a noi. Nel fondo di ogni bellezza sta qualche cosa di inumano, ed ecco che le colline, la dolcezza del cielo, il profilo degli alberi perdono, nello stesso momento, il senso illusorio di cui noi li rivestiamo. L'ostilità primitiva del mondo risale verso noi, attraverso i millenni. Il mondo ci sfugge, poiché ritorna se stesso. Le scene, travisate dall'abitudine, ridiventano ciò che sono e si allontanano da noi. Questa densità e questa stranezza del mondo costituiscono l'assurdo.


    Nemmeno gli uomini si sottraggono a questa trasformazione, una volta che si sia percepito l'assurdo e ci si sia immersi nel gorgo della estraneazione:

    Anche gli uomini secernono l'inumano. In certe ore di lucidità, l'aspetto meccanico dei loro gesti, la loro pantomima priva di senso rendono stupido tutto ciò che li circona. Un uomo parla al telefono, dietro un tramezzo a vetri; non lo si ode, ma si vede la sua mimica senza senso: e ci si chiede perché mai egli viva. Questo malessere di fronte all'inumanità dell'uomo stesso, questa incalcolabile degradazione dell'immagine di ciò che siamo, questa "nausea", come la chiama un autore contemporaneo [Sartre], sono pure l'assurdo. Parimenti, l'estraneo che, in certi momenti, viene incontro a noi nello specchio, il fratello familiare e purtuttavia inquietante che noi ritroviamo nelle nostre stesse fotografie, è ancora l'assurdo.


    Ma è inevitabile che la percezione dell'assurdo conduca al suicidio? Prima di rispondere, Camus affronta il problema della morte e la sensazione che noi, di fronte ad essa, proviamo.

    Su tale punto è stato tutto detto ed è convenevole guardarsi dal patetico. Tuttavia, non ci si meraviglierà mai abbastanza che tutti vivano come se nessuno "sapesse". Il fatto è che, in verità, non vi sono esperienze sulla morte. In senso proprio, non abbiamo sperimentato che ciò che è stato vissuto ed è stato reso cosciente. In questo campo, tutt'al più, si può parlare di esperienza della morte altrui; ma si tratta di un succedaneo, di una vista dello spirito, di cui noi non siamo molto convinti. Questa malinconica convenzione non può essere troppo persuasiva. In realtà, l'orrore viene dal lato matematico dell'avvenimento, e se il tempo ci spaventa è perché ci fa la dimostrazione, mentre dopo viene la soluzione. [...] Nessuna morale, nessuno sforzo sono giustificabili a priori davanti alla sanguinante matematica che regola la nostra condizione.
    Ancora una volta, tutto ciò è stato detto e ridetto. Mi limito qui a fare una classificazione rapida e ad indicare codesti temi evidenti, che ricorrono in tutte le letterature e in tutte le filosofie. La conversazione di ogni giorno ne prende nutrimento; non si tratta dunque di inventarli di bel nuovo. Bisogna però accertarsi di queste evidenze per farsi più tardi la domanda sulla questione iniziale. Ciò che mi interessa non sono tanto le scoperte assurde, quanto le loro conseguenze. Se si è sicuri di questi fatti, che cosa bisogna concluderne? Fin dove bisogna arrivare per non eludere nulla? Bisognerà morire volontariamente, o sperare, nonostante tutto? È necessario operare prima lo stesso rapido spoglio sul piano dell'intelligenza.


    In quest'ambito Camus rivolge una critica decisa al pensiero razionalista e alla scienza, che pretendono di fornire certezze sull'essenza dell'uomo e del mondo.

    Fatta eccezione per i razionalisti di professione, si dispera oggi della vera conoscenza. Di che cosa, infatti, posso dire: "Io lo conosco"? Questo cuore, che è in me, lo posso sentire e ne arguisco che esiste. Questo mondo, posso toccarlo, e giudico di nuovo che esiste. Ma qui si ferma tutta la mia scienza. Questo cuore stesso, che pure è il mio, resterà sempre per me indefinibile. L'abisso che c'è fra la certezza che io ho della mia esistenza e il contenuto che tento di dare a questa sicurezza, non sarà mai colmato. Sarò sempre estraneo a me stesso. Nella psicologia, come nella logica, vi sono alcune verità, ma non esiste la verità. [...] Ecco ancora degli alberi, di cui conosco la rugosità, e dell'acqua, di cui sento il sapore. E questi profumi d'erba e di stelle, la notte, in certe sere in cui il cuore si placa... come negherò questo mondo, di cui sento la potenza e la forza? Eppure tutta la scienza di questa terra non potrà dirmi nulla che possa rendermi certo che tale mondo mi appartiene. [...] Se posso afferrare con la scienza i fenomeni ed enumerarli, non posso comprendere altrettanto bene il mondo. [...] Anche l'intelligenza mi dice, dunque, a modo suo, che questo mondo è assurdo. Il suo contrario, cioè la ragione cieca, ha un bel pretendere che tutto sia chiaro.


    L'assurdo, tuttavia, non dipende semplicemente dal mondo. Infatti, Camus precisa:

    Dicevo che il mondo è assurdo; ma andavo troppo presto. Il mondo, in sé, non è ragionevole: è tutto ciò che si può dire. Ma ciò che è assurdo, è il confronto di questo irrazionale con il desiderio violento di chiarezza il cui richiamo risuona nel più profondo dell'uomo. L'assurdo dipende tanto dall'uomo quanto dal mondo, ed è, per il momento, il loro solo legame. Esso li suggella l'uno all'altro come soltanto l'odio può vincolare gli esseri. È tutto ciò che posso discernere in questo universo smisurato, in cui si svolge la mia avventura.


    Dunque, l'assurdo dipende dalla compresenza di uomo e mondo, per i quali costituisce il solo effettivo legame. Resta il fatto che

    dal momento in cui viene riconosciuto, l'assurdo diventa la più straziante di tutte le passioni. Ma sapere se si può vivere con le proprie passioni, se si può accettare la loro legge profonda, che è quella di bruciare il cuore che, nello stesso tempo, esaltano: ecco il problema. [...]
    E la ragione è impotente di fronte a questo grido del cuore. Ciò che io non comprendo è senza ragione. [...] L'uomo si trova davanti all'irrazionale e sente in sé un desiderio di felicità e di ragione. L'assurdo nasce dal confronto fra il richiamo umano e il silenzio irragionevole del mondo. È questo che non bisogna dimenticare; è a questo che bisogna aggrapparsi, poiché possono nascerne le conseguenze di tutta una vita. [...]
    Sul piano dell'intelligenza, posso dunque dire che l'assurdo non è nell'uomo, e neppure nel mondo, ma nella loro comune presenza. Per il momento, è il solo legame che li unisca. Se voglio fermarmi all'evidenza, so ciò che vuole l'uomo e ciò che gli offre il mondo; e ora posso dire che so anche ciò che li unisce. Non ho bisogno di approfondire oltre, perché una sola certezza basta a colui che cerca. Si tratta soltanto di trarne tutte le conseguenze.


    E, appunto, Camus trae le conseguenze della sua analisi:

    L'unico dato per me è l'assurdo. Il problema è sapere come uscirne, e se da codesto assurdo debba dedursi il suicidio. [...] L'assurdo ha senso solo nella misura in cui gli venga negato il consenso.
    Esiste un fatto evidente che sembra assolutamente di ordine morale, ed è che un uomo è sempre preda delle proprie verità. Quando le abbia riconosciute, egli non è capace di staccarsene. Bisogna pur pagare qualche cosa. Un uomo divenuto cosciente dell'assurdo è legato a questo per sempre. Un uomo senza speranza, e cosciente di esserlo, non appartiene più all'avvenire. Questo è nell'ordine delle cose. Ma è pure naturale che egli si sforzi di sfuggire all'universo di cui è il creatore.


    A questo punto l'autore è (o si sente) in grado di indicare la reale portata del suicidio.

    Vivere un'esperienza, un destino, è accettarlo pienamente. [...] Vivere è dar vita all'assurdo. Dargli vita è anzitutto sapere guardarlo. Al contrario di Euridice, l'assurdo muore soltanto quando gli si voltano le spalle. Così, una delle posizioni filosofiche coerenti è la rivolta, che è un perpetuo confronto dell'uomo e della sua oscurità; che è esigenza di una trasparenza impossibile, e che mette in dubbio il mondo ad ogni istante. [...] Si può credere che il suicidio sia la rivolta, ma a torto. Il suicidio è l'accettazione del proprio limite.


    Ma, al di là delle alternative (vivere accettando l'assurdo, o sfuggire ad esso mediante il suicidio), tutti gli uomini trovano uguaglianza nella morte.

    Al termine di tutto, nonostante tutto, vi è la morte. Lo sappiamo, e sappiamo anche che, con essa, tutto finisce.