Le parole "giusto" e "sbagliato" sono tra le più frequentemente usate per indicare la correttezza o meno di un procedimento, di una risposta, di un enunciato, ecc. Qui le analizzeremo in relazione all'uso che ne viene fatto nell'ambito certamente più ambiguo e problematico: quello morale. Infatti, se da un lato la moralità viene spesso considerata universale e dotata di un carattere cogente, dall'altro vi è un ampio disaccordo su cosa è giusto e cosa è sbagliato. La facile constatazione che giusto e sbagliato non sembrano essere gli stessi per tutti induce a credere che in ambito morale il punto di vista migliore sia il relativismo; in effetti - se non sappiamo dire perché certe azioni come la tortura, l'omicidio, il furto, lo stupro ecc. sono sbagliate - quale giustificazione possiamo addurre per opporci ad esse? La moralità è solo una questione di preferenze, o possiamo fornire valide ragioni a sostegno delle nostre convinzioni morali?
La parte della filosofia che tratta questioni simili è in genere conosciuta come etica o filosofia morale. Questa disciplina risponde dunque a domande del tipo: "che cosa significa che un'azione è giusta o sbagliata?", "come bisogna vivere?", "come dobbiamo comportarci con le altre persone?". A tali interrogativi sono state fornite risposte diverse, che permettono di parlare di almeno tre tipi di teorie morali: deontologiche, consequenzialiste e basate sulla virtù. Le teorie etiche deontologiche pongono l'accento sul fatto che ciascuno di noi ha certi doveri (azioni che deve o non deve compiere) e affermano che agire moralmente consiste appunto nel rispettare tali doveri, qualunque conseguenza ne possa derivare. A questo tipo appartengono l'etica cristiana e l'etica kantiana. Le teorie etiche consequenzialiste giudicano se un'azione è giusta o sbagliata non in base alle intenzioni della persona che la compie ma, appunto, alle conseguenze dell'azione stessa. La teoria etica consequenzialista più conosciuta è l'utilitarismo, il quale ha le sue radici più antiche nell'edonismo (ricerca del piacere) e nell'eudemonismo (ricerca della felicità). La teoria etica della virtù si basa in larga misura sull'Etica nicomachea di Aristotele, e per questa ragione è talvolta chiamata neoaristotelismo. A differenza delle altre due, che (seppure in modo diverso) concentrano la loro attenzione sul carattere giusto o sbagliato delle singole azioni, questa teoria si interssa al carattere e alla vita degli individui nella loro interezza, sostenendo che si deve vivere coltivando sempre la virtù, intesa come la realizzazione delle proprie potenzialità. Consideriamo rapidamente le teorie citate, rilevandone, accanto ai caratteri generali, le possibili obiezioni che ad esse possono essere rivolte. 1. L'etica cristiana L'etica cristiana, fondandosi sulla Bibbia, giudica il giusto e l'ingiusto come derivanti dalla volontà di Dio. Nel decalogo, in particolare, è elencata una serie di doveri e proibizioni ai quali bisogna attenersi per comportarsi giustamente. Ai dieci comandamenti, si affianca il motto del Nuovo testamento: "ama il prossimo tuo". Molti hanno pensato che senza Dio non può nemmeno esistere una morale. Il grande scrittore russo Fedor M. Dostoevskij, ad esempio, ha affermato: "se Dio non esiste, tutto è permesso". Tuttavia all'etica cristiana è possibile muovere varie obiezioni, la più grave delle quali è che essa presuppone l'esistenza di Dio e la sua benevolenza, ma in pratica né l'una né l'altra possono essere date per scontate. Sulla prima gravano i limiti conoscitivi dell'uomo; la seconda è posta in dubbio dalla presenza del male nel mondo (presenza che, se giustificata, mette in crisi l'effettiva onniscienza e/o l'onnipotenza di Dio stesso). 2. L'etica kantiana La teoria etica di Kant, sebbene egli fosse un cristiano devoto, non si basa sull'esistenza di Dio ma sulla convinzione che vi sono dei doveri "categorici", cioè assoluti, universali. Per Kant, infatti, un'azione è morale solo se è compiuta per "senso del dovere", e non perché mossi da un'inclinazione o per compassione. Egli pensava che la morale fosse un sistema di imperativi categorici (ad es.: "bisogna sempre dire la verità", "non si deve mai uccidere"), riconducibili comunque a un solo imperativo fondamentale: "agisci solo seguendo massime che tu possa al tempo stesso volere come leggi universali". In altre parole, bisogna agire solo seguendo massime che vorremmo si applicassero imparzialmente a tutti. Questo principio è conosciuto come principio di uiversalizzabilità, che è in fondo una versione della regola d'oro del cristianesimo: "fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te". Un'altra delle versioni kantiane dell'imperativo categorico è: "tratta le altre persone come fini in sé, e mai come mezzi per un fine". Anche per l'etica kantiana si possono sollevare obiezioni. La prima riguarda la perplessità in cui essa lascia nel caso in cui due doveri entrino in conflitto. La seconda è il ruolo secondario che essa assegna a emozioni come la simpatia, la pietà, ecc. La terza è che essa non tiene conto delle conseguenze delle azioni, ma solo ed esclusivamente conto delle intenzioni. Coloro che trovano convincente quest'ultima critica alle teorie deontologiche apprezzeranno probabilmente il tipo di teoria etica consequenzialista. 3. L'utilitarismo Come detto, la forma di teoria etica consequenzialista più conosciuta è l'utilitarismo. Esso si fonda sull'assunzione che gli scopi ultimi di tutta l'attività umana siano il piacere e la felicità. Poiché una felicità universale pare implausibile, per un utilitarista un'azione giusta sarà quella che produce la massima felicità complessiva: tale principio è detto principio di utilità. La critica principale che si può rivolgere all'utilitarismo è che in sostanza è molto difficile misurare la felicità e confrontare la felicità di persone diverse. Ad esempio, chi può confrontare il piacere provato da un tifoso di calcio per la vittoria della sua squadra con i brividi provati da un appassionato lettore di fronte a un idillio di Leopardi? E come si possono paragonare queste esperienze con sensazioni di piacere fisico quali quelle suscitate dal sesso o dal cibo? Un'altra obiezione all'utilitarismo è che esso può giustificare molte azioni che normalmente consideriamo immorali: se per esempio si dimostrasse l'effetto deterrente prodotto dall'impiccagione di un innocente, un utilitarista sarebbe obbligato ad affermare che tale azione è moralmente giusta (ma una simile conclusione può sembrare a molti assolutamente ripugnante). 4. Teoria della virtù Solo coltivando la virtù, dice Aristotele, si "fiorisce" come esseri umani. Ma che cos'è la virtù? Si tratta di uno schema di riferimento in base al quale regolare il proprio comportamento e in virtù del quale si possono provare determinate sensazioni. Ad esempio, chi possiede la virtù della generosità proverà sentimenti generosi e agirà di conseguenza nelle situazioni appropriate. Dunque, a differenza di Kant, Aristotele riteneva che il provare determinate emozioni sia un fattore determinante per condurre una vita buona e giusta. Una seria critica che possiamo rivolgere alla teoria della virtù è che essa presuppone l'esistenza di una natura umana, e perciò l'esistenza di schemi di comportamento appropriati per tutti gli uomini (ma una simile concezione è stata messa in dubbio da molti filosofi, come ad esempio Sartre). Un'altra obiezione è che essa induce a pensare che ci siano virtù più desiderabili di altre, per cui ogni elenco di tali virtù rischia in realtà di derivare dai pregiudizi, dai gusti e dal modo di vivere di chi lo compila. 5. Relativismo La coesistenza conflittuale delle teorie etiche induce molti a un atteggiamento relativistico. Appare infatti evidente che persone appartenenti a società differenti abbiano idee ed usanze diverse riguardo a ciò che è morale; che insomma non c'è un consenso universale su quali azioni siano giuste o sbagliate. Altrettanto chiaro appare il fatto che le concezioni morali cambiano da luogo a luogo e da un periodo storico all'altro, di modo che la morale sembra appunto relativa alla società in cui si è cresciuti. Tali constatazioni fanno pensare che non ci siano valori morali assoluti, e che pertanto l'ottica più corretta, in etica, sia quella relativistica. Una prima obiezione al relativismo morale è che esso pecca di incoerenza: esso infatti sostiene che tutti i giudizi morali sono relativi, ma al tempo stesso considera la propria posizione come "assolutamente" vera. Ancor più serie appaiono le sue conseguenze pratiche: infatti, esso non lascia spazio per la critica dei valori morali di una data società (per esempio, in una società in cui sia dominante la concezione secondo cui alcuni crimini vanno puniti con la pena di morte, chiunque contestasse la pena di morte commetterebbe un'azione immorale). Come si può evincere da questa breve discussione, l'etica è una branca della filosofia vasta e difficile. Per questo, e per le sue implicazioni pratiche, le discussioni intorno ai quesiti da essa sollevati sono tuttora al centro del dibattito filosofico. * Elaborazione da N. Warburton, Il primo libro di filosofia, Einaudi, Torino 1999, 43-76. |