Il nuovo millennio ha assistito alla comparsa del cosiddetto "popolo di Seattle", un movimento eterogeneo di rivolta e di contestazione anticapitalista che ha aperto un nuovo ciclo di lotte e mobilitazioni di massa a livello internazionale, il cui apice è stato raggiunto probabilmente in occasione del summit del G8 svoltosi a Genova nel luglio 2001, la cui memoria rievoca anzitutto la tragica morte di Carlo Giuliani.
In tale circostanza luttuosa la reazione del sistema, messo duramente in discussione, proruppe in modo assolutamente primitivo e irrazionale. Turbato dalle vaste moltitudini umane che si contaminavano, rifiutavano il modello di società imposto dalla globalizzazione neoliberista, progettando e costruendo nella prassi politica quotidiana un mondo diverso, proponendo esperienze di autogestione e partecipazione diretta in alternativa al verticismo esercitato dalle oligarchie economiche multinazionali, la risposta del potere non tardò a manifestarsi in una forma istintivamente rozza e brutale, rivelando la natura criminale e antidemocratica del nuovo ordine sovranazionale incarnato dai capi di stato riuniti nel vertice del G8. Nella sua fase iniziale questa reazione si è concretizzata in atti insensati e raccapriccianti di violenza poliziesca, immediatamente denunciati dal movimento (attraverso fotografie e filmati autoprodotti, testimonianze, documenti e inchieste di controinformazione), quindi condannati dall'opinione pubblica internazionale, per cui la fase successiva ha visto un clamoroso salto qualitativo dell'azione repressiva, che ha partorito il disastro epocale dell'11 settembre 2001. Questo tragico avvenimento ha fornito un efficace alibi, scientemente strumentalizzato per invocare e autorizzare uno stato di "guerra preventiva e permanente" contro il terrorismo globale. L'apparente antinomia tra terrorismo e guerra costituisce in realtà un orrendo parto gemellare generato dal medesimo apparato di potere che fa capo al blocco imperialista anglo-americano. Il sistema ha concepito e orchestrato una mostruosa e ingegnosa rivisitazione, proiettata in chiave planetaria, della classica "strategia della tensione", tesa a destabilizzare per stabilizzare, ossia a preservare e consolidare l'ordine (mondiale) con il disordine, vale a dire con il terrore globale. In effetti, da quel momento storico la parabola ascendente (sul versante sia ideologico-propagandistico che strategico-organizzativo) del movimento antiglobalizzazione ha ricevuto un brusco rallentamento, fin quasi ad arrestarsi. I nuovi padroni e gendarmi del pianeta All'11 settembre seguirono presto l'occupazione militare dell'Afghanistan e l'intervento armato in Iraq, che non a caso durano ancora. Tali conflitti bellici si sono dimostrati assolutamente ingiusti, cruenti e sanguinosi, pur essendo camuffati sotto forma di operazioni di "gendarmeria internazionale", ovvero propagandati come strumenti legali di esportazione della "democrazia occidentale", o addirittura spacciati come "interventismo umanitario". Com'è noto, entrambe le guerre sono state imposte e guidate dalla "tigre di carta" dell'impero nordamericano, al cui carro militarista e guerrafondaio si è agganciata anche la "pecorella" italica, che negli ultimi anni si sta timidamente affacciando nello schieramento del rinascente imperialismo europeo. L'attuale blocco imperialista globale è indubbiamente egemonizzato dagli Stati Uniti, ma al suo interno si vanno definendo e assestando nuovi equilibri e nuovi rapporti di forza e supremazia di tipo economico-monetario, provocando ripercussioni in termini di nuovi contrasti internazionali. Dopo la caduta del muro di Berlino, nel 1989, e il tracollo dell'Unione Sovietica e del Patto di Varsavia, gli U.S.A. si sono ritrovati ad essere l'unica superpotenza militare presente sulla scena globale, per cui hanno decisamente assunto il ruolo di gendarmeria planetaria, esautorando l'O.N.U. e arrogandosi l'esercizio esclusivo della forza e del diritto internazionale, mentre sul piano economico-commerciale e monetario sono emerse nuove rivalità e nuove tensioni tra i maggiori colossi del mercato capitalistico mondiale, vale a dire Stati Uniti, Europa, Cina e India. Senza dubbio sono questi i principali protagonisti del nuovo ordine mondiale. La globo-colonizzazione dell'Irpinia Gli effetti di vera e propria globo-colonizzazione, di omologazione materiale e intellettuale, operati dall'economia di mercato, costituiscono ormai un dato di fatto assolutamente innegabile ed evidente su scala planetaria. L'economia delle merci e dei capitali è in grado di esercitare un'ingerenza sempre più aggressiva e pervasiva nella vita dei popoli, instaurando un dominio subdolo e quasi invincibile sui corpi e sulle menti delle persone. Le merci (qualsiasi tipo di merce, legale e illegale), il denaro (anche quello più lurido e lercio), i commerci (leciti e illeciti), la pubblicità, approdano e si insinuano ovunque in maniera occulta e strisciante, si estendono e si sviluppano rapidamente, freneticamente, (ir)razionalmente. L'unica razionalità e l'unico pensiero possibili e immaginabili, si risolvono nella ferrea e spietata logica del profitto economico privato. Merci e capitali circolano liberamente, senza regole e senza argini, imponendo dappertutto le proprie leggi aride e disumane, anche negli angoli più sperduti, isolati e inaccessibili del mondo. Persino nelle lande più deserte e desolate della Terra, in quei luoghi che un tempo potevano considerarsi vergini, non essendo mai stati profanati dalla presenza dell'uomo bianco occidentale. Questa feroce intrusione è avvenuta anche nella cintura montuosa dell'Alta Irpinia, laddove in passato piccole e ristrette comunità umane si ritrovavano, proliferavano e si perpetuavano nell'isolamento più totale, più atroce e nel contempo più rassicurante. Comunità che oggi appaiono irrimediabilmente violate e destabilizzate, destinate ad una fatale estinzione demografica. Dagli anni Sessanta agli anni Ottanta Negli ultimi decenni una profonda e convulsa trasformazione economica, antropologico-culturale e identitaria, si è compiuta in tutte le aree interne del Mezzogiorno, e non solo in Alta Irpinia, sconquassando furiosamente una società rimasta ferma e immutata per lunghi secoli di storia. Già nel corso degli anni Sessanta la società irpina, ancorata per secoli ad un assetto economico di tipo latifondistico, ha conosciuto un primo, sconvolgente sviluppo verso la modernità, con il trapasso da un modo di produzione agricolo e semifeudale ad un'economia non più solo rurale, incline al settore terziario, per cui una parte consistente delle classi sociali si sono riversate nell'ambito dei commerci, dei servizi e del pubblico impiego, mentre l'emigrazione in massa dei braccianti agricoli ha causato l'abbandono e la sterilizzazione di fertili terreni prima coltivati. La meccanizzazione dell'agricoltura irpina ebbe inizio proprio durante gli anni Sessanta, contrassegnati dal primo "boom" economico nazionale. Successivamente, nel corso degli anni Ottanta, in virtù dei fondi economici statali assegnati per i lavori della ricostruzione dei centri terremotati, fu avviato un ambizioso quanto controverso esperimento, quello dell'industrializzazione delle aree interne. Si decise di trasferire e impiantare le fabbriche, le stesse fabbriche installate in pianura (ad esempio nella grande pianura attraversata dal Po), in zone di montagna, in territori aspri e tortuosi, difficilmente raggiungibili e percorribili, in cui non esisteva ancora una rete moderna di infrastrutture stradali, di trasporti e comunicazioni, in cui i primi soccorsi legati all'emergenza post-sismica stentarono non poco ad arrivare a destinazione. Un'impresa ardua, velleitaria, forse impossibile, perdente sin dalla nascita. E non poteva essere diversamente, dati i presupposti iniziali. Un processo di sottosviluppo che ha rivelato la propria natura regressiva e rovinosa, in quanto ha arrecato guasti e scempi irreparabili all'ambiente, al territorio e all'economia locale, di carattere prettamente agricolo e artigianale. Basta farsi un giro in Alta Irpinia per scoprire un paesaggio ormai sfigurato per sempre. Si trattava di un tentativo di industrializzazione e modernizzazione economica storicamente determinato dalla trasformazione post-industriale e dalla post-modernizzazione delle economie capitalisticamente più avanzate del Nord. Questo piano presupponeva il trasferimento di capitali e di incentivi statali destinati a finanziare la dislocazione di macchinari e attrezzature industriali ormai obsolete e superate dai processi di ristrutturazione tecnico-produttiva in atto nelle aree capitalisticamente più evolute del Nord Italia. Pertanto, quel progetto di sviluppo era destinato a fallire sin dal principio, nella misura in cui è stato concepito e gestito in maniera clientelistica, favorendo l'insediamento di imprese provenienti dal Nord Italia, senza valorizzare e tutelare le ricchezze, le caratteristiche e le esigenze del territorio, senza tenere nel dovuto conto i bisogni e le richieste del mercato locale, senza promuovere le produzioni e le coltivazioni indigene, sfruttando la manodopera disponibile a basso costo, innescando un circolo perverso e vizioso, come si è infine dimostrato alla prova dei fatti. Il demitismo come malattia infantile e senile della società irpina Le responsabilità storico-politiche di tale fallimento sono note a tutti, in quanto il ceto politico locale che ha governato l'opera della ricostruzione in Irpinia ha coinciso e si è identificato con una parte rilevante della classe politica dirigente a livello nazionale. Basta citare i nomi di Ciriaco De Mita, Nicola Mancino, Giuseppe Gargani, Mario Sena, Salverino De Vito, Ortensio Zecchino, Gerardo Bianco, Lorenzo De Vitto, eccetera, per rendersi conto che i maggiori dirigenti della Democrazia cristiana irpina, i vari vassalli, valvassori e valvassini (ma anche i rivali dichiarati, come Gerardo Bianco) dell'imperatore e feudatario di Nusco, hanno ricoperto a lungo incarichi di prestigio all'interno del partito nazionale. Molti di questi personaggi sono tuttora esponenti politici affermati a livello provinciale, regionale e nazionale. L'onorevole Ciriaco De Mita è stato contemporaneamente segretario politico nazionale e capo del governo italiano nella prima metà degli anni '80. Un potere immenso concentrato nelle mani di una sola persona, affetta per indole caratteriale da un'accesa e incontenibile megalomania e da una sfrenata bramosia di potere. Insomma, il potere politico locale, esclusivo appannaggio della Dc, era assorto alla guida nazionale della Democrazia cristiana e al governo del paese. La leadership politica degli anni '80 era diventata in effetti una questione interna alla Democrazia cristiana irpina. Questo assetto si è preservato in modo cinico e spregiudicato, sopravvivendo quasi indenne e indisturbato alla bufera giudiziaria di Tangentopoli. Terra di invalidi civili e pensionati L'Irpinia era la provincia che vantava il primato nazionale degli invalidi civili e dei pensionati, un ben triste primato, soprattutto se si considera che in larga parte si trattava di falsi invalidi, in grado di guidare automobili, di correre e praticare sport, di scavalcare i sani nelle graduatorie delle assunzioni, di assicurarsi addirittura i posti migliori, di fare rapidamente carriera, grazie alle raccomandazioni e ai favori elargiti dai ras politici locali, intermediari del capo, il potente "uomo del monte", il cui feudo di origine e di residenza era (ed è) in quel di Nusco, caput (im)mundi. Sin dai primi anni '80 la nostra era la provincia in cui si contavano più pensioni Inps che nell'intera regione Lombardia, con la percentuale nettamente più alta del paese. Nelle nostre zone l'Inps era diventato il maggior erogatore di reddito e denaro per migliaia di famiglie. In passato, soprattutto nel corso degli anni Ottanta, il 50 per cento della popolazione irpina era formata da invalidi civili, in buona parte giovani con meno di trent'anni. Ciò era possibile grazie a manovre politiche clientelari di stampo democristiano e all'appoggio determinante di altre figure e altri pezzi rilevanti di società, a cominciare dai medici e dai servizi sanitari compiacenti, se non complici. L'assistenzialismo made in Irpinia e la piovra democristiana Negli anni Ottanta il sistema clientelistico e assistenzialistico in Irpinia era in pratica onnipresente e totalitario, nella misura in cui seguiva, dirigeva e condizionava la vita quotidiana delle persone, devote al santo di Nusco, dalla culla al loculo, a patto di sciogliere e cedere in cambio il proprio voto in ogni circostanza in cui veniva (e viene) richiesto, ossia ad ogni tornata elettorale di un certo rilievo, a livello locale, regionale e nazionale. Ancora oggi molti sindaci e amministratori dei piccoli Comuni irpini sono designati con la benedizione dell'uomo del monte, che fa e disfa la politica irpina a proprio piacimento, costruendo e affossando maggioranze e minoranze amministrative, indicando persino i nomi di taluni candidati all'opposizione. Ancora oggi, all'interno stesso del blocco demitiano si riflettono, si risolvono e dissolvono tutte le contraddizioni e i contrasti tipici della dialettica democratica tra governo e opposizione, tra sistema e antisistema, precludendo ogni possibilità di ricambio e mutamento radicale della politica irpina, che non a caso è tuttora sottoposta ai ricatti, alle influenze, ai capricci, ai condizionamenti esercitati dall'uomo del monte. La rete dell'assistenzialismo era diventata un apparato scientificamente organizzato, volto a garantire la conservazione perpetua di un sistema politico-clientelare simile ad una piovra, che con i suoi lunghi e complessi tentacoli si era impadronita della cosa pubblica, occupando in modo permanente la macchina statale, scongiurando ogni rischio di instabilità, crisi e, soprattutto, di cambiamento reale della società irpina. La grande piovra del potere demitiano ha sempre distribuito posti, appalti e subappalti, rendite e prebende, forniture sanitarie, eccetera, in tutti i paesi della provincia avellinese, favorendo e gestendo un vasto e capillare sistema parassitario composto da decine di migliaia di addetti del pubblico impiego, del ceto medio impiegatizio, di coltivatori diretti, di liberi professionisti, eccetera, che da sempre appoggiano la Democrazia cristiana, i suoi adepti e i suoi eredi (leggi Margherita), ossia investono su San Ciriaco, che è la testa pensante e pelata della piovra tentacolare. Ecco perché tale struttura di potere si è preservata e riciclata in modo integro e compatto fino ad oggi, resistendo ad ogni sussulto e ad ogni mutamento, sopravvivendo persino al furioso terremoto politico-giudiziario causato dalle inchieste di Mani Pulite, mentre altrove si è sbriciolata e dissolta facilmente sotto i durissimi colpi inferti dalla magistratura milanese all'inizio degli anni Novanta. Le nuove forme di precarizzazione economica e sociale L'espansione e l'accelerazione storica impressa nelle nostre zone dalla ricostruzione post-sismica, sostenuta da un ingente flusso di denaro pubblico, hanno determinato soprattutto un imbarbarimento dei rapporti umani e sociali. Dopo oltre 26 anni la fase dell'emergenza e della ricostruzione post-sismica non si è ancora pienamente conclusa, perlomeno non in tutti i centri più gravemente danneggiati dal terremoto del 1980. Si pensi che a Lioni, uno dei Comuni più disastrati dell'area del cratere sismico, i villaggi dei prefabbricati non sono stati ancora smantellati e bonificati del tutto. La popolazione locale attende con ansia il varo e l'attuazione di un adeguato piano di intervento in tale direzione. Negli anni Novanta l'espansione e, successivamente, la crisi e il declino, sia ideologico che strutturale, di quel processo di globalizzazione economica neoliberista contestata e rigettata ormai in tutto il mondo, costituiscono un fenomeno che si è rapidamente determinato anche in Alta Irpinia, con tutte le drammatiche conseguenze che ciò ha inevitabilmente comportato. Questa nuova, improvvisa accelerazione storica ha condotto fasce sempre più estese di popolazione, soprattutto giovanile, verso il baratro della disoccupazione, dell'emigrazione, dell'alienazione, dell'emarginazione, della precarizzazione, della disperazione. Rispetto a tali problematiche, le "devianze giovanili", i suicidi e le nuove forme di dipendenza - dall'alcool e dalle droghe pesanti - sono solo i sintomi più evidenti e inquietanti di un diffuso e crescente malessere sociale. Occorre aggiungere che anche un'ampia percentuale della popolazione senile accusa stenti, tormenti e privazioni, derivanti soprattutto dall'abbandono e dalla solitudine, disagi che in passato erano ammortizzati e compensati da una fitta rete di relazioni di mutua solidarietà tra le generazioni, che ora non esiste più, almeno nelle forme, nelle caratteristiche e nelle dimensioni di un tempo. Piccoli centri di montagna, che non offrono nulla o quasi, ai giovani, sia in termini di prospettive occupazionali, sia in termini di opportunità e occasioni di svago e divertimento, di aggregazione sociale e di crescita culturale, tranne qualche bar, pub o altri tipi di locali pubblici nei casi più fortunati, sono diventati luoghi desolanti di noia e di vuoto esistenziale, per cui attecchiscono abitudini insane, allignano in forma massiccia devianze e dipendenze da alcolici e droghe di vario tipo, comportamenti che fino a 20 anni or sono erano assolutamente impensabili e sconosciuti. Alcuni dati emblematici Le cifre più significative che attestano le dimensioni di un diffuso disagio sociale, sono inequivocabilmente drammatiche e sconcertanti. I numeri indicano chiaramente una crescita massiccia e costante di fenomeni davvero allarmanti come, ad esempio, le stime relative ai suicidi. Il numero dei suicidi registrati nella provincia di Avellino relativamente allo scorso anno, il 2006, ha purtroppo oltrepassato quota 40. Addirittura pare che alla provincia di Avellino spetti il triste primato dei suicidi nell'ambito delle regioni meridionali. Con sette suicidi ogni centomila abitanti l'Irpinia condivide con la provincia di Potenza questo lugubre e angosciante primato rispetto a tutto il Meridione d'Italia. A voler essere più precisi, il dato riferito alla provincia di Avellino riguarderebbe in modo particolare le zone dell'Alta Irpinia. All'origine di questo doloroso e inquietante fenomeno starebbero anzitutto due ordini di cause: la miseria economica e il disagio psicologico. L'Istat riferisce che gli italiani poveri sono 7.577.000. Il 22 per cento della popolazione meridionale vive praticamente sotto la soglia di povertà. In Alta Irpinia la percentuale della popolazione che versa in condizioni di povertà, si attesta oltre il 20 per cento. Il tasso della disoccupazione giovanile in Irpinia è salito oltre il 50 per cento, aggirandosi intorno al 52 per cento: quindi, nella provincia di Avellino un giovane su due è disoccupato. Inoltre, e questo è un motivo di ulteriore apprensione, il numero dei disoccupati che hanno superato la soglia dei 30 anni è in costante aumento. Molto elevato è altresì il numero dei disoccupati ultraquarantenni, che dunque nutrono scarsissime speranze e possibilità di reinserimento nel mondo del lavoro. Nel contempo, anche in Alta Irpinia si diffondono e si estendono a dismisura i rapporti di lavoro precarizzati, soprattutto in quella fascia di giovani che hanno tra i 20 e i 25 anni, ossia tra i giovani alla loro prima occupazione lavorativa. I tossicodipendenti in Irpinia si contano a centinaia; i decessi per overdose risultano in continuo e pauroso incremento. Da questo punto di vista, le realtà di Caposele, Calabritto e Senerchia formano un vero e proprio "triangolo della morte", così come la zona è stata mestamente definita in seguito ai numerosi decessi causati da overdose. Comunque, è estremamente difficile quantificare con esattezza la portata di un fenomeno come l'uso di sostanze tossiche nei paesi irpini, ma basta guardarsi intorno con maggiore attenzione per rendersi conto della gravità della situazione. I Ser.T (Servizio Tossicodipendenti), ad esempio, non sono affatto rappresentativi delle tossicodipendenze in Irpinia perchè qui si recano, in genere, eroinomani che hanno bisogno di assumere il metadone oppure quando, segnalati dalla prefettura, sono costretti a seguire una terapia. Dunque, stabilire con precisione quanti siano i consumatori delle altre sostanze (cannabis, cocaina, crac, kobrett, psicofarmaci, alcool) è praticamente impossibile. Certo è che piccoli paesini con più o meno 4 mila abitanti, come Andretta o Frigento, hanno assistito ad una crescita davvero spaventosa del fenomeno negli ultimi dieci anni. In queste piccole realtà montane si conta ormai un elevato numero di giovani tossicomani che fanno uso di sostanze deleterie quali l'eroina, il kobrett e il crac, i cui centri di spaccio sono da ricercare altrove, notoriamente identificati nelle periferie e nei quartieri più depressi e degradati dell'area metropolitana di Napoli, come, ad esempio, Scampia e Secondigliano. Quali sono le risposte fornite dalle istituzioni e dalle amministrazioni pubbliche locali? Nella migliore delle ipotesi, nessuna. Invece, nella peggiore delle ipotesi, il ricorso sistematico, ottuso e controproducente alla forza pubblica, attraverso l'inasprimento dei controlli (anche di tipo elettronico), dei posti di blocco, della repressione poliziesca e carceraria. Come se tali sistemi e provvedimenti di natura autoritaria e quasi draconiana, derivanti dalla legislazione proibizionista, si fossero mai rivelati un efficace deterrente contro il consumo di stupefacenti e altri simili comportamenti. Come se la semplice e pura repressione potesse provvedere un valido rimedio rispetto ai disagi psicologici ed esistenziali in rapido e costante aumento anche nelle nostre zone, che denotano piuttosto un tipo di malessere originato da altre gravi emergenze, sociali e ambientali, non ancora risolte. Mi riferisco soprattutto alla disoccupazione, alle nuove forme di emigrazione, alla precarizzazione delle condizioni e dei rapporti di lavoro e di vita, all'assenza di regole, diritti, tutele e speranze per le giovani, e meno giovani, generazioni irpine. Se non si affrontano seriamente e non si risolvono alla radice tali problematiche, difficilmente si potrà estirpare il malessere dilagante e diffuso anzitutto tra i giovani delle nostre comunità. Giovani abbandonati all'angoscia, allo sconforto e alla disperazione, nella misura in cui non possono coltivare nemmeno la fiducia e la speranza verso un avvenire più radioso e più ameno. L'ottimismo è ormai diventato un lusso riservato a pochi privilegiati. |