• Sempre più l'uomo di oggi vive in una civiltà dominata dalla tecnica.
    La tecnica, come è noto, altro non è se non l'insieme delle regole da applicare e da seguire nell'esercizio di una determinata attività secondo la migliore scienza ed esperienza del momento.
    Sennonché la peculiarità della tecnica che caratterizza la nostra civiltà è costituita essenzialmente dal modificarsi del rapporto intercorrente tra la tecnica e la realtà e tra la realtà e l'uomo.
    Ed invero, la tecnica a ben vedere è sempre esistita: la conquista del controllo del fuoco, l'elaborazione dei primi utensili con la pietra scheggiata nel Paleolitico, altro non sono se non delle prime forme di manifestazioni della tecnica.
    Orbene, fino al XVIII/XIX sec. la tecnica si inseriva in una visione del mondo caratterizzata essenzialmente da filosofie fondate sulla "epistéme", ovvero filosofie (la filosofia greca classica, la filosofia cristiana, la scolastica, la filosofia del razionalismo moderno) che concepivano la realtà come entità data, come un "a priori" che andava solo "svelato" e compreso dalla conoscenza umana; l'uomo stesso faceva parte di tale realtà già data, già scritta (la provvidenza divina o a seconda delle diverse impostazioni il senso del divenire); l'uomo quindi non aveva alcun "potere" su tale realtà, dovendosi limitare a conoscerla e a seguirla essendo essa già predeterminata.
    La tecnica, e ancora prima di essa la scienza, della quale la tecnica finisce con l'essere un'applicazione dei principi generali (formule) "svelati" dalla scienza medesima, s'inseriva in questa concezione filosofica del divenire.
    In tale concezione, quindi, la tecnica era essenzialmente strumentale ad una visione aprioristica del mondo che si riteneva determinata ed immutabile e all'interno della quale ciascuna realtà, in primo luogo l'uomo stesso, aveva un posto ben assegnato e non modificabile: la storia, il progresso, era già prestabilito nel Libro della Natura; la scienza (e la tecnica) dovevano "limitarsi" a leggere questo libro già scritto.
    Il compito di "leggere" questo libro, inevitabilmente veniva esercitato esclusivamente dalla cultura dominante (in essa ricompresa ovviamente anche la scienza) delle singole epoche storiche, che in tal modo individuava ed indicava determinati valori, determinate conoscenze, ritenendole e presentandole come estrinsecazioni di quella realtà prestabilita ed immutabile che via via si andava sempre più "svelando".
    Sennonché a partire dalla seconda metà del XIX si sono manifestate nuove concezioni filosofiche che hanno concepito in maniera totalmente diversa la realtà e con essa lo stesso rapporto tra l'uomo e la realtà medesima; a tale mutamento di concezioni filosofiche ha corrisposto anche un diverso modo di concepire e di atteggiarsi della tecnica, nonché dei rapporti tra l'uomo e la tecnica.
    Ed infatti, soprattutto la filosofia del secolo appena trascorso si è caratterizzata essenzialmente per la negazione dell'episteme: la fenomenologia, l'esistenzialismo, lo storicismo, il pragmatismo, l'ermeneutica, hanno in vario modo negato l'esistenza di un a priori, di una realtà prestabilita, affermando al contrario l'esistenza di una realtà indeterminata e come tale manipolabile dall'uomo e dal suo agire: l'uomo non è più l'attore che si limita a recitare un copione già scritto (come accadeva nella filosofia dell'episteme), bensì l'artefice della realtà stessa; realtà che, appunto perché non predeterminata e non a priori, è del tutto incerta e probabile (tutto può accadere, tutto si può scegliere), senza che vi sia alcun disegno unitario e prestabilito: l'uomo crea la stessa realtà.
    In tale nuova prospettiva, muta anche il ruolo della tecnica; quest'ultima infatti, che è sempre più complessa ed evoluta (in concomitanza col fenomeno della globalizzazione), diventa essa stessa il primo e fondamentale strumento attraverso il quale l'uomo cerca di manipolare, mutare, la realtà che lo circonda alla ricerca di nuovi obiettivi e di nuovi equilibri. Sennonché, venute meno le certezze di una volta, l'episteme del pensiero (il pensiero forte), non riuscendo più l'uomo a sostituire ai vecchi valori nuove finalità (pensiero debole), progressivamente ma inesorabilmente, la tecnica occupa essa stessa lo spazio che via via lascia libero l'uomo con la sua visione (anzi assenza di visione) del mondo e del suo divenire.
    Lo strumento sopraffà il suo artefice: l'uomo, che ha creato la tecnica a suo uso e consumo, finisce col diventare esso stesso strumento e mezzo della tecnica da lui creata: l'uomo si capovolge, non è più colui che sceglie e determina i fini, bensì al contrario diventa esso stesso meccanismo, ingranaggio, di una macchina complessa, e soprattutto senza conducente, quale è diventata la tecnica.
    Nella civiltà della tecnica non ci si chiede più a cosa serve la tecnica, quale obiettivo deve perseguire la tecnica, bensì solamente ci si domanda come far funzionare sempre meglio la tecnica, lo strumento, e in tal senso ci si adopera.
    In tal modo l'uomo inevitabilmente finisce col deresponsabilizzarsi: la risoluzione dei problemi, infatti, non è più rimessa alle scelte e alle valutazioni dell'uomo, che per l'appunto non riesce più ad esprimere valori e conseguenti scelte, bensì al miglioramento del processo tecnico; non più quindi l'uomo che governa la tecnica, ma la tecnica che governa l'uomo.
    E così l'uomo-strumento, smarrendo la sua vera identità di fine, si rifugia più o meno inconsapevolmente nelle apparenze scaturenti dalla civiltà della tecnica, quali il continuo rifarsi ai modelli e agli schemi dominanti (l'esistenza inautentica di Heidegger), o il perdersi nella frenesia del fare fine a se stesso.
    Numerosi sono gli esempi e i settori nei quali si manifesta tale evoluzione (rectius involuzione) della tecnica.
    Si pensi ad esempio al settore economico: non sono più i bisogni e le esigenze dell'uomo (ovvero i valori che in tali settori l'uomo deve scegliere ed esprimere) ad indirizzare il mercato (la tecnica del mercato), bensì al contrario è la tecnica del mercato che stabilisce quali bisogni e quali esigenze l'uomo deve (può) perseguire: non è più l'uomo che sceglie il prodotto, bensì è la tecnica (marketing) che decide il prodotto che deve essere venduto; e ancora e più a monte non è più l'individuo che crea il bisogno da soddisfare, bensì è il mercato (il consumismo) che crea artificialmente i bisogni che inducono l'individuo (l'uomo consumatore) a soddisfarli mediante l'acquisto del prodotto creato appositamente per suscitare determinati bisogni (in tal senso "l'uomo ad una dimensione" di Marcuse, dove la dimensione, l'unica dimensione, è quella della c.d. razionalità tecnologica e la c.d. ragione strumentale di Adorno, intendendo con ragione strumentale, l'unica praticata dall'uomo tecnologico, la ragione che serve a far funzionare meglio lo strumento, la tecnica, in contrapposizione con la ragione critica [abbandonata] che è quella in grado di ragionare, criticare, i fini e gli obiettivi).
    Altro esempio è dato dal settore dello spettacolo e da quello dell'informazione: anche in questi casi infatti non è più, o comunque non lo è in maniera decisiva come invece dovrebbe essere, l'uomo a scegliere il tipo di spettacolo o il tipo d'informazione, bensì è il "sistema", la tecnica, dello spettacolo o dell'informazione a indicare, "promuovere" lo spettacolo e l'informazione di cui l'uomo deve fruire. Scriveva a tal proposito Mac Luahn che "il medium è il messaggio", ovvero il mezzo della comunicazione (medium) forma e trasforma i messaggi che veicola e sovente diventa il fine della comunicazione stessa, lasciando sullo sfondo concetti e idee.
    Peraltro, evidente appare anche la correlazione, la reciproca interferenza, tra le tecniche del mercato, quelle dello spettacolo e quelle dell'informazione: tutte e tre invero, cooperano, a far si che l'uomo diventi sempre più mezzo e sempre meno fine.
    Ma tale "arretramento" dell'uomo in favore della tecnica si verifica anche in settori particolarmente delicati quali la bioetica; anche in questi settori, infatti, si tende, in maniera più o meno consapevole, a trasformare l'etica in tecnica: infatti non sussistendo più valori liberamente e consapevolmente scelti dall'uomo si finisce col delegare alla tecnica ogni scelta e ogni responsabilità: diventa giusto ciò che è tecnicamente possibile; ingiusto ciò che la tecnica non riesce (ancora) a manipolare.
    Quale la via di uscita?
    L'uomo deve ritornare ad essere l'unico fine, e la tecnica ad essere uno strumento governato dall'uomo. Ma per tornare ad essere il fine, occorre che l'uomo recuperi la sua essenza: l'uomo è scelta, l'uomo è libertà: libertà di scelta, libertà di fini, ai quali corrispondono diverse tecniche (Habermas). È l'individuo che deve esercitare in prima persona tale libertà senza abdicare a tale sua essenza.
    Scelta dei fini, scelta dei valori che prescinde comunque dall'esistenza o meno di valori a priori, nella misura in cui anche l'eventuale esistenza di tali valori a priori, in tanto è tale in quanto i relativi valori sono realmente condivisi (Habermas), fatti propri, e quindi non imposti bensì liberamente scelti (sentiti) dall'uomo in una determinata (libera) comunità in un determinato contesto storico.
    Solo in tal modo forse si riuscirà a ritornare all'etica kantiana riportando l'uomo ad essere fine e non più strumento secondo l'imperativo etico "agisci in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona che in quella di ogni altra, sempre come fine e mai come mezzo".