• La morale, è un valore assoluto o relativo? Tale dilemma, oggi sempre più attuale anche in seguito ai ripetuti richiami fatti a tal proposito dall'attuale Pontefice, rappresenta da sempre una delle tematiche principali di ogni sapere filosofico.
    Affermare che la morale è un valore assoluto, significa ritenere che le regole morali costituiscono un a priori, ovvero un elemento già dato e costituito, che l'uomo deve "solo" conoscere e al quale deve conformare il proprio agire. Al contrario, sostenere che la morale è un valore relativo, significa ritenere che i valori in cui si sostanzia la morale non costituiscono per l'appunto un dato già costituito, un a propri, che come tale non esiste, bensì un dato che l'uomo deve di volta in volta scegliere ed individuare secondo ragioni e criteri più o meno contingenti; trattasi quindi non già di un a priori bensì di un a posteriori. In altri termini, secondo la concezione assoluta la morale precede l'uomo e lo caratterizza; secondo la concezione relativa, invece, la morale segue e non precede l'uomo, anzi è l'uomo a caratterizzare (scegliere) la morale.
    Nell'ambito della concezione della morale assoluta possono distinguersi tre diverse impostazioni che si differenziano tra loro in relazione al fondamento e al metodo di conoscenza della regola morale.
    Una prima concezione è quella che pone la ragione come fondamento nonché come "strumento" di conoscenza della morale umana. Tale concezione è propria delle varie forme di razionalismo filosofico, le quali per l'appunto concepiscono l'essenza della natura umana, e più in generale la realtà in cui l'uomo vive, come espressione di una razionalità intrinseca, sicché anche la morale, manifestazione primaria della realtà umana, non può che essere essa stessa estrinsecazione della Suprema Ragione. Nel tempo tale tipo di concezione ha subito delle modifiche parallelamente al modificarsi del modo di concepire la natura della Ragione. E così fino a quando il concetto di ragione non è stato determinato e limitato dal concetto di realtà empirica, talché anche ciò che non trova riscontro nella realtà empirica può tuttavia essere pur sempre oggetto di ragione, anche il concetto di morale è stato inteso in termini che prescindevano da agganci e riscontri nella specifica realtà empirica (si pensi a tal proposito all'idea platonica del Bene o a quella aristotelica di Felicità, intesa quest'ultima come esercizio dell'Intelligenza, ed ancora al concetto di Dovere introdotto prima dagli stoici, ripreso successivamente da Spinoza ed infine da Kant con la formulazione dell'Imperativo categorico).Tali diverse impostazioni, pur nella loro diversità, presentano tuttavia delle convergenze: esse infatti concordano sostanzialmente nel ritenere che il comportamento giusto (e quindi morale) è il comportamento che fa prevalere i dettami della ragione rispetto alle pulsioni provenienti dagli istinti e dalle passioni, questi ultimi strettamente legati e connessi al mondo dell'esperienza sensibile (dei sensi). Quando invece il concetto di ragione è stato concepito con riferimento esclusivo a termini, dati, della realtà empirica (positivismo), e quindi il concetto di ragione è stato inteso in termini meramente scientifici, il concetto di morale è stato anch'esso ancorato a parametri empirici, pragmatici; si è così affermato che la condotta morale è quella in grado di arrecare la massima felicità (o a seconda delle diverse impostazioni, la migliore utilità possibile) realizzabile per il maggior numero possibile di persone (è questa la c.d. etica utilitaristica di Bentham e di Stuart Mill del XIX secolo).
    Venendo alla seconda concezione della morale assoluta, essa è quella che riconosce essenzialmente nella fede e non già nella ragione il fondamento, e al contempo lo strumento di conoscenza, della morale. Tale impostazione, propria delle filosofie religiose, come quella cattolica, iniziò ad affermarsi con il pensiero dei Padri della Chiesa (la c.d. patristica, S. Paolo, S. Agostino, e S. Tommaso); essa fu particolarmente "imperante" durante l'epoca medievale.
    Infine, terza ed ultima concezione della morale assoluta è quella che riconosce come fondamento, nonché strumento di conoscenza, del precetto morale, né la ragione, né la fede, bensì il sentimento (in tal senso, pur con rilevanti differenze tra loro, David Hume e Nietzsche).
    Tali concezioni quindi, ribaltano la concezione della morale fondata sulla ragione, appunto perché diversamente da queste ultime ritengono che il fondamento della morale risieda essenzialmente non già nella ragione, bensì nei sentimenti, ovvero nelle pulsioni che spingono l'uomo ad agire per raggiungere determinati fini, desideri, dallo stesso percepiti (sentiti), e rispetto ai quali la ragione a volte (o spesso) può rappresentare un'arbitraria (innaturale) sovrastruttura che li comprime e li limita.
    Tale ultima concezione della morale assoluta, costituisce al contempo il momento di collegamento, di passaggio, dalla morale assoluta alla morale relativa. Ed invero, se si ritiene che il sentimento che costituisce il fondamento della morale, non è, come invece ritiene la morale assoluta, un sentimento comune a tutti gli uomini, bensì diverso e mutevole per ciascun uomo, sicché diversi e vari sono i desideri, i fini che ciascuno uomo intende perseguire, ne consegue che non esisterà più una morale assoluta, bensì esisteranno tante e diverse morali (relativismo morale) quante sono per l'appunto i diversi sentimenti (spinte) che determinano l'uomo ad agire, nonché i diversi contesti nei quali si esprime l'uomo, e nei quali si manifestano tali "spinte".
    Tale concezione si afferma essenzialmente nel secolo XX, con diverse correnti filosofiche quali, ad esempio, la filosofia analitica, l'ermeneutica, l'esistenzialismo (con particolare riferimento al pensiero di Sartre, il quale pone l'accento sull'assoluta libertà dell'uomo nel determinare le sue scelte ed i suoi valori: "l'uomo è condannato ad essere libero"). In verità, il relativismo morale affonda le proprie radici in concezioni filosofiche quali la sofistica (V-IV sec. a. C.: Protagora, Gorgia) e successivamente nelle varie manifestazioni dello scetticismo del II-III sec. d.C. (Pirrone di Elide), e del XVI sec. (Montaigne). Tutte queste concezioni filosofiche sono infatti caratterizzate dalla convinzione che non esiste una verità, non esistono dei valori assoluti e a priori dei quali l'uomo possa avere una conoscenza certa e chiara (o perché tali valori non esistono, oppure perché, pur sussistendo, l'uomo però non riesce a conoscerli). Tornando al relativismo morale del XX secolo, esso nella seconda metà del secolo si è affermato ed evoluto in alcune concezioni come quelle del c.d. pensiero debole (Vattimo: pensiero debole, appunto, perché nega la validità di ogni sapere assoluto a priori, ovvero di ogni "pensiero forte"), le quali hanno posto l'accento sul dialogo sociale, sicché l'etica finisce col coincidere con l'etica della comunità, ovvero con l'etica che viene liberamente scelta, e continuamente riformulata, dal confronto, dal dialogo e dalla comunicazione all'interno delle libere comunità (Habermas). Sennonché, negando una morale a priori, una morale oggettiva, si corre il rischio non tanto di disconoscere una morale (in quanto la morale come tale coincide, come già rilevato, con la morale della comunità; semmai vi è il pericolo che la comunità non riesca ad esprimere, affermare, una morale), quanto piuttosto si corre il rischio di "svuotare" l'uomo, il singolo individuo, che non avendo più alcun punto di riferimento, oggettivo ed a priori, finisce col coincidere in toto con la comunità, con la morale che la comunità esprime in un determinato momento e in un determinato contesto; talché l'uomo si risolve integralmente nella morale comune, al di fuori della quale non vi è alcuno spazio per la morale (la coscienza morale) del singolo. Per contro, invece, l'essenza della morale risiede anche nel riconoscimento dell'individualità e della suprema individuale dignità umana, appunto perché esistente a priori ed in termini oggettivi, e che, come tale, non può comunque esser pregiudicata e/o asservita al "comune sentire". È questa, in fondo, la tematica propria del mito di Antigone di Sofocle, l'eroina che sfida la legge ("il comune sentire") e la morte pur di seguire la sua coscienza (la sua coscienza morale).
    Ma se da un punto di vista ontologico, per le ragioni su richiamate, la morale va intesa in termini assoluti, è pur vero, tuttavia, che da un punto di vista gnoseologico la morale deve essere intesa in termini relativi e non già assoluti. Ed invero, stante la natura non empirica della morale, essa non può essere conosciuta con le certezze della razionalità scientifica; inoltre, per la sua stessa natura, la morale deve essere una regola autonoma e non eteronoma (quale è il diritto), ovvero una regola sentita, accettata, e non imposta, subita, dall'individuo (la morale è il regno della libertà). Ciascun individuo deve quindi ricercare al proprio interno (nel proprio "sentire") la regola morale, e nessuno e nulla può imporre ad altri la propria morale. A tale foro interno si sono richiamati i grandi filosofi, a partire da Socrate, che invitava ciascuno di noi a "scrutare" nel proprio intimo ("conosci te stesso"), per giungere a Kant, il quale in maniera altrettanto chiara e sublime invocava "... la legge morale che è in me... ".