D. - Il tuo cammino non è stato molto coerente, io ti conoscevo come esperto di problemi filosofici legati al mondo dell'arte; ora da vent'anni anni ti occupi di neuroscienza, di insiemistica e di struttura del pensiero matematico, fino a sfociare nelle complesse questioni relativistiche e quantistiche legate più a un discorso di filosofia della scienza. Già i tuoi studi di gioventù denotano una scarsa coerenza, da geometra a filosofia: tutto questo è segno, lasciamelo dire, di una certa confusione mentale.
R. - Effettivamente, potrebbe anche essere. D'altra parte, io non ho paura di rimettermi sempre in discussione. All'ospedale, dopo l'ictus ad esempio sono stato costretto a riprendere anche parte del programma elementare ai fini della riabilitazione. I maligni dicono che si nota, e che mi sono fermato lì. Ho trascorso, è vero, una gioventù caotica, ma mi consola il fatto che lo stesso Nietzsche in una di quelle frasi che adesso si trova anche sulla carta dei "cioccolatini" afferma che "ci vuole un grande caos dentro di noi per creare delle stelle danzanti". E poi parliamoci chiaro, la coerenza esteriore lo sappiamo tutti che è roba da idioti, come diceva Sant'Agostino. D. - Rimane il fatto che non tutti i problemi possono essere risolti come fai tu attraverso il sarcasmo. Ma per me resta il fatto che il tuo cammino intellettuale rimane un mistero: prima l'istituto quintino Sella, dove prendevi una sospensione un giorno sì e uno no, poi l'istituto geometra, poi filosofia, e da ultimo neuroscienze, astrofisica... Non hai ancora chiaro che cosa vuoi fare da grande. R. - Adesso le idee le ho chiarissime e non c'è niente di più facile che svelare il mistero dell'incoerenza esteriore: dico "esteriore" perché c'è una coerenza interiore assai più importante. Basta conoscere alcuni brandelli di storia della mia meravigliosa famiglia. D. - Sentiamo questa storia. R. - Mio nonno Ettore era costruttore; il suo nome è legato alla più grande stazione di Parigi: la "gare de l'est". Mio bisnonno Antonio anche ha costruito la tenuta Cortazza dei Mercandino a Vergnasco ed è li che, a cavallo fra Ottocento e Novecento, è diventato amico del pittore Delleani. In questo salotto dove sei seduta adesso, mio bisnonno veniva sempre con il pittore. Questo spirito "costruttore" mi è rimasto addosso. Infatti la mia ricerca è fatta di piccoli "mattoni" e non passa giorno che io non ne posi qualcuno: questo l'ho preso come impegno per costruire la mia "cattedrale". Dalla parte paterna ho tutto lo spirito risorgimentale che mi aiuta: mio trisnonno Carlo Alberto ha fatto molte campagne risorgimentali, non ultima quella come bersagliere al seguito di Lamarmora in Crimea, dove è stato ferito nella battaglia della Cernaia. E poi c'è stato il socialismo: quello stendardo che vedi attaccato appartiene a una cooperativa di mutuo soccorso fondata da mio bisnonno. E poi ci sono stati morti sul Carso e durante la Resistenza, nella torre della "casa della memoria" sventola la bandiera tricolore tutto l'anno. È la storia di una famiglia che ha servito la patria, anche con le opere di pace; è una famiglia forgiata in ultimo da uno strano miscuglio fra due mondi: mia madre, cresciuta in mezzo alla borghesia parigina di inizio secolo; mio padre, contadino della valle dell'Elvo, anche se discendente da una famiglia che ha fatto la sua parte di storia. A 20 anni mia madre è passata dalla Parigi di Jean Paul Sartre a una cascina di una sperduta valle dell'Elvo, gente semplice che ha fatto la storia d'Italia. Queste vite assai diverse costituiscono la dialettica della storia, la linfa del pensiero puro che cresce e si rigenera non sugli studi programmati e lineari di quei figli programmati sin da piccoli, ma a volte anche sulle "mazzate in testa"; i contrasti sono un input formidabile per il proliferare delle "sinaspsi" nel cervello. È questa storia "genetica" della mia famiglia, fatta di sudori lungo i campi di grano, lo sventolio di tricolori e il brulicare di concetti filosofici nei quartieri "esistenzialisti" di Parigi, che mi ha preservato - dopo l'ictus cerebrale gravissimo subito a soli 38 anni, e dopo l'ingratitudine senza limiti ingoiata in questi anni da parte dei miei cari "amici" intellettuali - dal suicidio. È la storia della mia famiglia che ha fatto prevalere sull'istinto di morte, ancora una volta, il desiderio di cambiare il mondo; non mi sarei alzato dalla carrozzella in cui ero relegato nel primo periodo di malattia: il cervello fa miracoli in certe occasioni. E poi, devo confessarlo, dal cielo ho avuto un grande dono, un Angelo, di nome Tiziana (mia moglie); forse è proprio lei l'artefice di tutto.Grazie, Titti... D. - Questa casa tutta affrescata con addirittura una torre perfettamente medievale, da che pazzo l'hai ereditata. R. - L'ho avuta dalla famiglia di mia madre. La casa di per sé ha più di cento anni e l'hanno costruita mio bisnonno e mio nonno. La torre, la struttura attuale e gli affreschi, invece, sono opera di un altro fortunato incontro con un altro sognatore, ovvero col pittore Walter Mancini nonché mio suocero, che, fra l'altro, ha restaurato la chiesa di San Giorgio in Vergnasco, di San Benedetto ed altre chiese, o tombe, come quella del beato Pier Giorgio Frassati su a Pollone e tante altre cose. Il mio caro indimenticabile suocero aveva come massima, dai tempi delle lotte partigiane, il motto di Dostoevskij: "la bellezza salverà il mondo". D. - Ma perché "Casa della memoria": che cosa vuol dire? R. - Ho voluto in questa casa le memorie culturali e la cultura "mitteleuropea" su cui è fondato il mio pensiero, attraverso ritratti, scritti e quant'altro. Poi c'è il ricordo del mio paese, con documenti, vessilli storici; in questa bandiera dell'Ottocento, qui nel salotto, si legge la famosa scritta di Marx: "lavoratori di tutto il mondo, unitevi e spezzate le vostre catene", e altro. Poi c'è la mia famiglia che scorre attraverso la storia sia europea sia italiana, intermediandosi. D. - Mi piace quella scritta sulla facciata, "ad excelsa tendo": da dove arriva? R. - È un'antica scritta latina, che io interpreto sommariamente così: "tendo alle grandi cose". È un motto che ha fatto suo anche l' A.N.A. (Associazione Nazionale Alpini). D. - Ma ora parliamo dei tuoi studi. In fondo, dovrei essere qui per questo, non lo dimentichiamo, anche se da quello che ho capito non si può prescindere da quello che siamo soprattutto in un campo come il tuo, vicino alla neuroscienza. A tal proposito so che in questi anni hai avuto molti elogi, in particolare dai neuroscienziati del mondo anglosassone. C'è una ragione in questo? R. - Non c'è una ragione particolare; forse, vi sono meno "baroni" nelle Università straniere, al contrario di come succede in Italia, dove impediscono a chi ha qualcosa da dire di entrarci e di dirlo. Un'altra ragione è che in Inghilterra o in America conta di più il tuo lavoro che il "nepotismo". Insomma, valutano il tuo lavoro, e niente altro. In Italia la tendenza è sempre la stessa: "essere intellettuali di corte". Questo giudizio lo riservo naturalmente ai piccoli uomini detentori della cultura italiana odierna. Nei confronti dei grandi, il metro di giudizio è assai diverso e ti posso dire solo che ho avuto anche e-mail di ringraziamento per uno schema da un premio Nobel italiano. La regola è sempre quella del poeta Pasolini: "la purezza e l'umiltà si trovano solo nella gente più diseredata e poi si ritrovano molto in alto, nelle somme genialità. In mezzo c'è solo sporcizia ed arroganza". D. - Indicami il fulcro delle tue ricerche e, se è possibile, un po' di coerenza. R. - Tu sei fissata con la coerenza. Nella mia analisi degli artisti di un tempo ho sempre trovato sorprendente, più del valore prettamente estetico, il valore "percettivo", cioè come l'artista si poneva di fonte al mondo esterno, e quasi sempre rimanevo sorpreso perché l'artista in ogni epoca intuisce sempre prima dello scienziato: pensa a come un Seurat o il nostro Pellizza da Volpedo hanno preceduto, a livello di percezione della realtà, la teoria quantistica; o al punto di vista relativistico sull'oggetto, da parte di un Picasso o del cubismo in generale. Ed è proprio questo il fulcro di tutta la mia ricerca, "la percezione". Sono seriamente convinto che l'intera storia del pensiero si è scontrata con un ostacolo invalicabile, il millenario problema della filosofia, cioè il rapporto soggetto-oggetto e i risvolti percettivi di questo rapporto; questo non è altro che il problema del problemi anche per la scienza e per il pensiero in generale. Dal mito della "caverna" di Platone, a Imanuel Kant, dalla scuola di Vienna fino ai filosofi della mente odierni, il problema vero è legato al modo in cui si percepisce la realtà esterna, e qual è il rapporto di quest'ultima con le categorie interne all'individuo. D. - Che questioni si pongono per la scienza attuale e che ruolo ha la filosofia? R. - Il ruolo della filosofia è determinante perché ha il compito di riformulare dalle radici la tanto decantata "oggettività" scientifica, ha il grande dovere storico e morale di ripensare la scienza. Certo non bisogna intendere la filosofia come "caccia alle farfalle". La filosofia non deve disdegnare con un atteggiamento idealistico di usufruire della psicologia cognitiva, e della neuroscienza, dell'astrofisica della biologia, e tutto questo perché uno dei sui compiti è di mettere in moto il suo "specifico" in assoluto, la metodologia "dialettica"; tutto questo per togliere la scienza dallo stagno positivista. E per far ciò deve farsi aiutare, in particolare, da quella scienza moderna che esplora il cervello, "la neuroscienza", e anche in particolare dalla psicologia cognitiva, scienze che sperimentano quelle categorie mentali che Kant e altri avevano già intuito. D. - E qui, lasciatelo dire, entra di nuovo in gioco il massimo di incoerenza. Prima condanni la scienza e poi ne fai un largo uso. R. - Vale sempre il vecchio proverbio, del "bambino buttato coi panni sporchi". Una sola parola ti dico; "metodo- storico-dialettico", l'unica salvezza. Questa è la pietra da buttare nello stagno. D. - Se ti domandassi quali sono le basi neuroscientifiche che fanno ripensare alle pretese oggettive all'interno della scienza attuale, sapresti darmi una risposta semplice, tenendo conto del consiglio di Einstein: "non hai veramente capito qualcosa finché non sei in grado di spiegarlo a tua nonna"? R. - Il sommo genio aveva ragione, ma ad un patto: che la nonna sia laureata in matematica e fisica. Questa battuta sulla nonna mette in ballo una questione "complessa". Ti rispondo soltanto che bisogna pensare alla filosofia come alla matematica: nessuno in matematica si stupisce se, prima di passare alla risoluzione di equazioni complesse, bisogna saper fare due più due: e perché dobbiamo stupirci se il pensiero filosofico è difficile? Le cose non sono date, come i funghi, ma col sudore della fronte. Certo, non le dobbiamo complicare apposta, saremmo degli idioti, ma non possiamo neppure fare finta che le cose complicate siano semplici. C'è un solo modo per evitarlo, come dicono dalle mie parti: "usare molto olio di gomito". Parlavamo di semplicità. Ecco un esempio che mi assolve: quando vado al pranzo dei coscritti e dopo qualche bottiglia cantiamo le canzoni "dla piola", le cose sono molto più semplici, o in apparenza, almeno, sembrano tali. Quindi non è questione di essere semplici o meno, è questione di essere "noi stessi". Come prova della mia buona fede ti aggiungo questo: suonavo la fisarmonica in compagnia ed ho fondato assieme al mio amico Gian Rocco Bombelli il coro A.N.A. Stella alpina di Vergnasco e sono anche stato il primo direttore, ma le canzoni erano talmente tristi che dopo 15 giorni mi è venuto un ictus (sto scherzando naturalmente ). D. - Qual era la canzone più allegra... R. - "Bombardano Cortina". D. - Ma veniamo alla questione base e alla pretesa "oggettività" della scienza. R. - Tutta la scienza moderna su basi esperienziali, da Galileo in avanti, ha reputato i "sensi" infallibili. Ora, la psicologia cognitiva e la neuroscienza ci danno risposte assai diverse, sia per quanto riguarda l'elaborazione delle immagini visive sia il loro rapporto "sincronizzato" con un cammino percettivo che ha a che fare con gli organi vestibolari, con la legge gravitazionale ed infine con il sistema biologico-strutturale. Questa "sincronizzazione" crea delle anomalie, e in particolare influisce sul sistema tridimensionale: la gravitazione. Salta un solo punto, come hanno dimostrato gli ultimi esperimenti spaziali a gravità "zero", e salta anche la percezione precisa dell'alto-basso; si oscura vale a dire la percezione del "tridimensionale". D. - Fammi un esempio di un'anomalia attuale, fondamentale per la risoluzione dei problemi attuali della scienza e che riguardi in qualche modo la percettività, secondo te. R. - Indubbiamente resta irrisolto il "problema dei problemi", quello che ha costretto all'isolamento Einstein nel suo eremo di Princeton gli ultimi dieci anni della sua vita. Ma qui dovremmo aprire un discorso quantistico assai complesso, difficile da spiegare alle nonne non laureate in astrofisica. Diciamo solo questo: da una parte vi è l'elettromagnetismo e il problema della luce, il quale ultimo sembra più obbedire a delle leggi quantistiche, vale a dire a leggi che conducono ad una fisica e ad una realtà "non continua" difficile da comprendere, dato che, stando alla teoria della Gestalt, noi non possiamo concepire la realtà che come continua. Dall'altro ci sono le leggi gravitazionali, che vanno più d'accordo con una realtà "continua" tipica di una fisica classico-relativistica. Einstein era convinto, mediante la matematica applicata alla "teoria dei campi unificati", che si potesse risolvere le contraddizioni fra teoria della relatività generale e la meccanica quantistica. D. - E tu cosa ne pensi? E soprattutto la tua ricerca cosa c'entra con tutto questo? R. - La mia filosofia della scienza si basa sul presupposto che la matematica, fondata sul pensiero simbolico, è già frutto dell'anomalia che pretende di risolvere. Io dico che è irrisolvibile sul piano essenzialmente cognitivo, perché tale anomalia è radicata sul piano strutturale, ed è questa che porta all'ambiguità intrinseca, al concetto di simbolo. D. - E allora qual è la soluzione? R. - È un problema squisitamente percettivo. La matematica non può risolvere il rapporto relatività - meccanica quantistica, perché questa distorsione è frutto dello stesso "dualismo" su cui si fonda il pensiero logico-simbolico. In passato ho dimostrato che né sul piano matematico né su quello della psicologia cognitiva si risolve il problema, essenzialmente sul piano strutturale, ed inoltre affermo che lo stesso meccanismo percettivo non si comprende fino in fondo se non sul piano strutturale. Ci sono dei risvolti neurologici che dipendono dalla struttura dialettica del reale tramite i neurotrasmettitori che lo dimostrano. È lo scarto percettivo impregnato in questa stessa struttura, che conduce irrimediabilmente a percepire la realtà sotto il concetto di "continuo", che come tale è un limite invalicabile per introdursi nella struttura quantistica. D. - Questo è un discorso nuovo... R. - Non c'è nulla di nuovo sotto il sole; tutta la storia del pensiero dai presocratici in avanti ha a che fare con un dilemma già accennato: il rapporto soggetto-oggetto. È chiaro che noi siamo avvantaggiati a partire dalla neuroscienza. Platone non disponeva che del "mito della caverna" e Imanuel Kant delle categorie trascendentali; noi abbiamo, fra l'altro, la neuroscienza e non solo. D. - E per quanto riguarda i limiti del pensiero matematico? R. - Dipende dal dualismo intrinseco alla struttura dello stesso pensiero logico-simbolico, dalla stessa struttura antropologica. Proprio in questi giorni si è scoperto che la categoria del "simbolico" non è un'esclusiva dell'"homo sapiens", ma questo non mi sorprende. Quella del "logico" a mio avviso entra molto più tardi, ma ciò che importa è che per il formarsi del simbolo, ci vogliono realtà di base contraddittorie. Il dualismo su cui è fondato il pensiero matematico è la ragione del suo limite cognitivo, è la più forte ragione nei confronti dell'inettitudine della stessa in rapporto alla realtà quantistica. Il concetto ambiguo che si trova subito di fronte è quello di continuo e discontinuo. Intuizioni "prequantistiche" di questi limiti ce ne sono sempre state, dalla filosofia presocratica a Cartesio. Carlo Marx stesso, nei suoi "manoscritti matematici", fa un discorso che riguarda il calcolo differenziale come parte dell'analisi infinitesimale oltre che il ragionamento sul concetto di continuo e non continuo. Il problema resta la struttura della matematica stessa ed è questo il problema dei problemi ed è di questo che io voglio occuparmi. D. - Ma dunque, secondo te, la matematica ha fallito il suo compito storico di essere il linguaggio privilegiato della scienza? R. - La questione del linguaggio matematico si perde nei tempi; credo che le dispute medioevali sugli universali esprimessero già questo problema di fondo. Io ho vissuto una bellissima esperienza, che mi ha convinto che il linguaggio matematico non è affatto un segno arbitrario, per dirla semplicemente, ma il rispecchiamento della catena continua degli oggetti mentali. Questo rispecchiamento si concretizza nella teoria "insiemistica", che è poi la partenza di qualsiasi discorso matematico. Io ho avuto la "fortuna" di essere stato alla neuro, ed in seguito di essere stato giudicato da una commissione ministeriale qualificata un "mezzo rimbambito" non più in grado di insegnare. Il provveditorato mi ha lasciato ancora la possibilità di insegnare su "progetto di recupero". È qui che è nata la mia fortuna, perché ho avuto la possibilità di assistere all'insegnamento nella classe più difficile in assoluto, la prima elementare, e di constatare a livello esperienziale le mie tesi sul rapporto neurologico fra gli "oggetti mentali e la teoria degli insiemi". Ora sono sicuro: da un lato c'è la matematica col suo limite invalicabile che si esprime sotto forma di CONTINUO. È da questi bimbi guidati da un insegnante di matematica eccellente che ho capito quanto fosse inutile l'ultimo tentativo di Einstein di risolvere col "collante" delle 4 equazioni differenziali di Maxwell il "pasticcio" della teoria dei campi unificati. Questo tipo di matematica, fondata su una struttura logico-simbolica, non è più in grado di decifrare un mondo quantistico. D. - Che cosa rimarrà di questa matematica in futuro? R. - Rimarranno i soliti "conti della serva", perché è questo l'unico compito che gli assegna un mondo pragmatista, dove il concetto di vero o di falso si giudica in rapporto all'utile. D. - Questo è profondamente "pragmatista" all'americana. R. - Ma anche profondamente biellese, lasciamelo dire. Forse lo stimolo più forte di tutta la mia ricerca viene proprio da un mondo che mi faceva sentire in colpa fin da giovane, quando mi si ripeteva fino alla nausea che perdevo tempo in "balle": così veniva definito ciò che non era "sul filo della lana" come i trattati di filosofia, che non "rendono" nulla. Questo ragionamento a lungo andare non ha fatto più rendere neanche la lana. È ora che i biellesi stiano di più "sul filo della filosofia" anziché "sul filo della lana" e forse farebbe del bene anche a quest'ultima. Non se ne può più di lana, diciamocelo, una buona volta! D. - Cambiamo decisamente argomento. Cosa pensi del sofferto rapporto chiesa cattolica-scienza, e in particolare delle polemiche sulle cellule staminali-embrionali? R. - Ti accontenti di una risposta semiseria, data l'ora? D. - Vada per la risposta semiseria. La mia esperienza da giornalista mi insegna che sono le risposte più "serie". R. - Risposta semiseria: anche noi "filosofi" abbiamo versato fiumi di inchiostro sui giornali prima di capire che eravamo presi per i "fondelli", prima di capire che a chi ci ha tirato in ballo non interessava un "fico secco" né della vita né della morte, ma soltanto di preservarsi il Potere sulla vita e sulla morte: non è mai stato una questione scientifica, ma squisitamente ideologica. D. - Quale pensi che sia veramente, allo stato dei fatti, il rapporto chiesa cattolica e scienza? R. - La chiesa ha sempre fatto finta che la questione le stesse a cuore, ma le scelte concrete sono state tutte contro la scienza; per "Lei" è un'abitudine riconoscere gli errori solo dopo 500 anni, come ha fatto con Galileo. D. - Se no, cosa succede con gli scienziati? R. - Se no, "li brucia" prima, come è successo a Giordano Bruno in campo dei Fiori e a molti altri. |