Oggi possiamo considerarci in un periodo storico di "passaggio", siamo in un tornante della storia analogo a quello attuatosi dal Medioevo all'era moderna, diversi secoli fa. Allora dal teocentrismo medievale si passò all'antropocentrismo moderno. L'uomo divenne il vertice del mondo e della storia. Ma l'uomo di oggi è diventato così "vertice" di se stesso che fatica a comprendere se stesso. E si domanda: a quale uomo stiamo andando incontro? E dove ci porterà la fine di questo tornante della storia?
Il problema risiede tutto in questi termini. L'uomo di oggi, per riuscire a realizzarsi come tale, fin dalla nascita è preso in un ingranaggio inesorabile che ha un nome: "consumo", e un cognome: "successo". O piuttosto, come acutamente ha detto lo psicoanalista Erich Fromm, punta più sull'avere che sull'essere. Così, fin dall'inizio della sua vita, il bambino acquisisce meccanismi competitivi e della competizione fa, senza rendersene conto, il carburante di ogni sua attività: in famiglia, a scuola, nel gioco, nelle relazioni con gli altri. E crescendo viene condizionato sempre di più in questa direzione: ad avere successo, costi quello che costi, perché poi possa "contare" e guadagnare e quindi spendere. Un meccanismo perverso, nel senso che tende ad autoriprodursi, sia a livello di individui che di nazioni, a livello planetario. Ma c'è chi, come l'economista Raj Patel o il filosofo Andrea Braggio, ritiene che qualcosa si sia inceppato in tale meccanismo: stiamo entrando in una nuova fase storica segnata dal progressivo affermarsi di nuove forme di cooperazione. È l'emergere di una nuova umanità, più attenta ai bisogni degli altri e cosciente del fatto che siamo tutti legati da un destino comune. Per la prima volta ci si avvia al riconoscimento dell'interdipendenza e i giovani lottano in ogni parte del mondo per l'affermazione di nuovi modelli di pensiero e di vita incentrati sulla condivisione e la giustizia sociale. Stiamo cioè entrando in una nuova era mossa da una logica opposta al meccanismo competitivo, una logica di servizio e non di sfruttamento, che orienta ad amare e al dono di sé, alla base della quale ritroviamo motivazioni di solidale apertura interpersonale. Mai come oggi l'uomo e le società dei paesi sviluppati sono stati liberati dalle necessità materiali e hanno avuto in mano mezzi così potenti per trasformare il mondo e la comunità umana. Pare davvero che la pace, la fraternità universale, lo sviluppo solidale di tutti gli uomini siano a un passo dall'essere raggiunti: ci sono ormai i mezzi per sconfiggere la fame, l'analfabetismo e tutte le altre millenarie piaghe che opprimono l'uomo. Se non si è ancora giunti a queste mete è solo perché la maggioranza delle persone e gli uomini di governo che li rappresentano ancora non hanno chiaro in testa che lo sviluppo materiale è a servizio di tutta la comunità umana: ci sono i mezzi, le ricchezze, la potenza industriale e tecnico-scientifica, ma ancora non si sa come usarli. La società moderna non manca tanto di organizzazione o di strutture o di potenza o di ricchezza, quanto piuttosto di valori spirituali e morali e di nuovi sistemi educativi, che indichino il cammino da compiere per il bene di tutti. Tale cammino può solo passare attraverso la condivisione e una più attenta giustizia sociale. Si tratta in fondo di perseguire la difficile arte d'essere pienamente umani, di rigettare le logiche di coloro che, chiusi nei loro piccoli nuclei, affermano: «Queste sono le cose che devono interessarmi. Quello che succede là fuori non mi riguarda». È prendere coscienza del fatto che le conseguenze di una crisi che si aggrava non possono essere considerate un fatto individuale, di quel padre che ha sempre provveduto alla famiglia e ora ha perso l'impiego, o di quell'imprenditore che ha sempre dato lavoro ai suoi operai e quindi da vivere alle loro famiglie ed è stato messo in ginocchio dai debiti. Tali conseguenze rappresentano invece un problema sociale che coinvolge tutti noi. Divenire pienamente umani significa riconoscere che la nostra economia è troppo distante dall'uomo ed è portatrice di gravi fratture a livello sociale. La nostra economia presenta questi paradossi: il mondo oggi sa come produrre una ricchezza enorme, ma non sa come distribuirla con giustizia. La ricchezza abbonda là dove ce n'è di più ma scarseggia dove sarebbe più necessario averne; le derrate alimentari sono in sovrappiù nei paesi già ben nutriti, mentre scarseggiano dove regna la malnutrizione e la fame. Tutto questo indica chiaramente un fallimento sia della scienza economica che di quella politica. Secondo molti interpreti della filosofia della condivisione, fra le diverse finalità verso le quali l'economia dei paesi ricchi è indirizzata, finalità contrarie all'elevazione dell'uomo, merita un'attenta considerazione il problema degli sprechi e l'indirizzo «consumistico» della produzione industriale. L'industria moderna non lavora più per soddisfare autentici bisogni dell'uomo, ma per crearne di nuovi, per la gran parte superflui, e lavorare per soddisfarli. Abbiamo così un'economia dello spreco sostenuta da una pubblicità che violenta e abbrutisce i consumatori, lasciandoli sempre insoddisfatti. È autentico progresso inondare il mercato con sempre nuove qualità di detersivi, di creme di bellezza, di auto, di frigoriferi e televisori, di mode strampalate nel vestire e via dicendo? Quanti sono i prodotti perfettamente inutili che vengono imposti ai consumatori dei paesi ricchi? Si dirà che questa è la legge della produzione industriale e del progresso. Ma è falso, poiché l'industria andrebbe avanti lo stesso se, invece di produrre cose inutili o superflue, producesse per soddisfare i molti bisogni essenziali dell'uomo, ancora non soddisfatti anche nei paesi ricchi: pensiamo solo alla casa, all'educazione, sanità, trasporti pubblici, manutenzione e abbellimento dei centri urbani e delle loro periferie, impianti sportivi per tutti, strutture per anziani, ecc. Notiamo ancora che questa corsa pazza al consumismo, non solo è negativa per gli stessi popoli dei paesi ricchi, ma è nociva anche per i paesi ancora in via di sviluppo, dove la pubblicità consumistica occidentale sta creando gli stessi meccanismi che nei nostri paesi. Il celebre proverbio «bisogna mangiare per vivere e non vivere per mangiare» sta diventando sempre più falso: nei paesi sviluppati – come fra le classi alte di quelli sotto-sviluppati – è sempre più vero che l'uomo vive per mangiare anche quando non ha fame, vive per consumare, per produrre di più e consumare di più. Questo spreco di denaro, di energie umane, di risorse della terra, lo pagano i poveri del mondo, il cui distacco dai ricchi diventa sempre più abissale poiché questi ultimi, invece di usare della loro ricchezza per aiutare i fratelli nel bisogno, inseguono un'illusoria felicità materialistica, che non raggiungeranno mai. Secondo molti interpreti della filosofia della condivisione, il servizio dei più forti ai più deboli deve prevalere sul profitto e l'egoismo privato o di casta. Se non vogliamo che l'abisso fra ricchi e poveri del mondo si accentui sempre più, arrivando a determinare squilibri sempre più gravi, dobbiamo esprimere una volontà politica che riesca a mettere le società occidentali su un altro binario di marcia; non quello del progresso tecnologico fine a se stesso ed egoisticamente conservato per sé, ma l'aiuto e il servizio fraterno in modo che tutti possano avere condizioni di vita umane. Più sensibili al cambiamento economico e sociale in corso, i giovani sembrano averlo capito meglio degli adulti, anche se una parte della gioventù, disorientata, si è lasciata prendere dall'ossessione dei consumi: spendere tutto e subito, dilapidare tutto per soddisfare bisogni creati artificialmente, senza costruire nulla. Certo, una società che ha fatto del denaro e dell'edonismo il proprio e unico mito non può aspettarsi di meglio. Ma dal travaglio di tante coscienze e dallo sfumare di tante illusioni è rimasta a molti giovani di oggi l'aspirazione a rendersi più consapevoli dei problemi sociali che stiamo attraversando a seguito della crisi economica in corso e a contribuire alla loro soluzione con una mentalità nuova, più cooperativa, meno competitiva. Di fronte alla miseria, all'ingiustizia e all'avidità, le giovani generazioni sentono di non poter più tacere o patteggiare con modelli economici neoliberali portatori di disuguaglianze sociali e valori oramai superati. Non vogliono un'economia orientata esclusivamente alla ricerca di profitti fini a se stessi, che svalutano l'uomo al pari di una merce, un'economia orientata alla competizione e dominata da una finanza che non paga per i suoi errori e che specula sulle teste di lavoratori e onesti cittadini. Non vogliono un'economia che nel perseguire in modo spregiudicato interessi di poche corporations sfrutta l'ambiente deteriorandolo irreparabilmente. Nonostante le crisi e le tensioni che travagliano le nazioni, per la filosofia della condivisione i segni dei tempi parlano chiaro: c'è nell'aria una nuova primavera di vita in tutto il mondo e i giovani porteranno il cambiamento all'insegna della condivisione, della pace e della giustizia sociale. |