In questa sezione trovi 100 concetti essenziali per capire e interpretare gran parte (ovviamente, non tutto) del discorso filosofico e delle sue problematiche. All'interno di una definizione, sono generalmente evidenziati in grassetto i termini a cui è destinata una voce propria.
Accidente
Termine aristotelico che indica ciò che appartiene a una cosa, ma non sempre e non necessariamente, e quindi non è indispensabile per determinarne l'essenza. Significa l'opposto di sostanza.
A fortiori
Questa espressione significa "a più forte ragione" e si usa per quell'argomentazione che, provando vero un certo caso, ne dimostra vero (a più forte ragione) un altro. Ad esempio: "Se un lungo tragitto affatica un uomo sano, a più forte ragione affaticherà uno zoppo".
Agnosticismo
Si dice di qualunque posizione o dottrina che ritiene inconoscibile la realtà "in sé". In ambito religioso, l'A. non ammette l'esistenza di Dio ma neppure la nega: semplicemente, sospende il giudizio.
Amore
Il termine italiano unifica la traduzione di due vocaboli greci: eros e agàpe, che in latino erano resi, rispettivamente, con amor e caritas. L'area semantica del primo identifica la concezione dell'A. propria della filosofia classica, che lo intende per lo più come una forza unificante e armonizzatrice (per esempio Empedocle), modellata a differenti livelli sulla base dell'A. sensuale. Il secondo esprime invece la dimensione cristiana dell'eros, inteso come amore verso Dio e verso il prossimo.
La filosofia moderna, a partire da Cartesio, introduce una nuova accezione del termine: l'A. è infatti considerato come una passione, cioè un'affezione dell'anima individuale, o meglio della coscienza
Si tratta comunque di una parola fra le più abusate, e quindi difficilmente compendiabile in una breve analisi. Secondo Abbagnano-Lamanna "indica quella forza che spinge a uscir fuori di sé, del proprio limite, per unirsi e confondersi con l'oggetto desiderato, ritenuto un bene o il Bene". È una definizione semplice e pregnante: possiamo accontentarci.
Amor fati
Espressione nota soprattutto attraverso Nietzsche, ma impiegata anticamente dagli stoici e, dopo il grande filosofo tedesco, dall'esistenzialismo. Indica l'accettazione incondizionata del proprio destino.
Anamnesi
Questo termine significa "reminiscenza" ed è impiegato da Platone per definire la conoscenza. Egli scrive infatti: "conoscere è ricordare". L'anima, che per Platone preesiste al corpo ed è immortale, ha infatti contemplato la verità del mondo delle idee (iperuranio) anche se l'ha dimenticata unendosi al corpo. All'uomo è comunque concesso, seppure attraverso un faticoso cammino intellettuale, di recuperare l'originaria visione delle idee, e quindi di ri-conoscere la verità che, in quanto dotato di un'anima, è già in lui.
Angoscia
Con questo termine (dal latino angustia, che deriva da angere = "stringere") si indica in generale uno stato d'animo o sentimento di profonda e disperata inquietudine, tale da darci l'impressione di sentirci interiormente "stretti" da una forza ignota ed indicibile.
Filosoficamente ha assunto un significato preciso con Kierkegaard (come sentimento che l'uomo ha della nullità del suo essere finito di fronte all'infinitudine di Dio) e poi in Heidegger (come sentimento del nulla da cui l'uomo emerge e che quindi costituisce la sua essenza più profonda).
Anima
Fin dai tempi più antichi, anche pre-filosofici (poemi omerici, orfismo), l'anima (in greco anemos = "soffio, vento") è stata intesa come il principio vitale.
I pensatori antichi e medievali distinguevano tra A. vegetativa, sensitiva e razionale.
Per il cristianesimo essa reca l'impronta divina.
Nell'epoca moderna sta ad indicare il principio che dà vita e coscienza.
Animismo
Concezione antichissima, secondo cui tutti gli esseri naturali sono animati e viventi. Si tratta dunque di un termine vicino a ilozoismo, ovvero quella concezione che, ritenendo materiale l'intera realtà, riconosce nella materia stessa il principio della vita. Dall'A., tuttavia, l'ilozoismo si distingue in quanto il carattere del principio vitale è strettamente biologico e non spirituale.
D'altro lato, l'A. si avvicina al panpsichismo, ossia la dottrina secondo la quale tutto sarebbe animato e la materia avrebbe un'attività analoga a quella psichica dell'uomo. A sua volta, però, il panpsichismo si distingue dall'A. perché, mentre quest'ultimo mantiene una concezione pluralistica della realtà, quello è caratterizzato da una concezione monistica dell'essere.
Nonostante l'influenza del cristianesimo, l'A. non fu ridotto al silenzio. Nel Quattrocento lo professarono ad esempio Ficino e Pico; e nel Cinquecento, maghi come Agrippa e Paracelso, nonché filosofi naturalisti come Telesio, Bruno e Campanella.
Antinomia
In generale (dal greco antí = "contro" e nómos = "legge"), significa contraddizione di una legge con un'altra, pur essendo giustificabili separatamente. Nel linguaggio filosofico indica una contraddizione irrisolvibile fra due proposizioni entrambe dimostrabili.
Apatia
Da a privativo e páthos = "passione", significa assenza di passioni. Nella filosofia stoica è considerata la suprema virtù del saggio, il quale sa che tutto ha una ragione e quindi accetta tutto ciò che accade con serenità.
Apodittico
Termine aristotelico con cui si indica ciò che, essendo evidente per sé, non ha bisogno di dimostrazione ed è inconfutabile. Kant lo usò come sinonimo di "necessario", cioè logicamente dimostrabile o evidentemente vero.
Aporìa
Dal greco aporìa (= "passaggio impraticabile, via senza uscita"), indica un problema irrisolvibile per la possibilità di più soluzioni, diverse e incompatibili tra loro, ma tuttavia ugualmente sostenibili.
Apparenza
Il problema dell'A., in relazione alla realtà, sorge con Parmenide, per il quale la realtà è appunto apparente, illusoria. In Platone la realtà assomiglia invece alle idee, e quindi ha una sua consistenza in termini di verità. Nella filosofia di Kant si ha invece una distinzione interna alla realtà stessa, laddove il filosofo distingue tra fenomeno (la cosa come appare) e noùmeno (la cosa in sé).
A priori - a posteriori
Nell'antichità e nel medioevo con queste due espressioni si indicavano, rispettivamente, il ragionamento (a priori) che va dalla causa (che è anteriore, universale) all'effetto (che è posteriore, particolare), ovvero quello (a posteriori) che va dall'effetto alla causa. Il primo è detto anche "deduttivo", il secondo "induttivo".
A partire da Kant le due espressioni hanno assunto un significato diverso: "a priori" vien detta la conoscenza razionale, indipendente da ogni esperienza; "a posteriori" è invece chiamata la conoscenza che presuppone l'esperienza.
Assioma
Principio evidente per sé, e che quindi non ha bisogno di esser dimostrato.
Ateismo
Dal greco a-theòs (= "senza Dio"), è la posizione di chi nega appunto l'esistenza di Dio e di qualunque altro principio trascendente.
Atto
Termine fondamentale della filosofia aristotelica, correlativo a potenza. La potenza indica la possibilità di assumere una certa determinazione o forma, mentre l'atto è appunto la realizzazione di quella possibilità. Ad esempio, un albero è "in potenza" un tavolo.
Bello
Platone concepiva il bello come manifestazione del bene; Hegel lo identificava con la verità; Aristotele (e con lui il medioevo e il rinascimento) lo definiva come simmetria; Baumgarten lo concepiva come perfezione sensibile...
Sarebbe bello definire il bello in modo irrefutabile: ma come si fa? Il famoso proverbio: "Non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace" rende soggettivo e imprendibile il concetto di bellezza, poiché lo assimila o confonde con quello di piacere. D'altra parte, il proverbio capovolto: "Non è bello ciò che piace ma è bello ciò che è bello", appare nettamente più logico e oggettivo, ma comporta la domanda: "Chi stabilisce una volta per tutte i canoni della bellezza?".
Se vuoi, puoi scervellarti col quesito (d'ascendenza platonica ma che provo a formularti con parole mie): "Diciamo che esistono cose belle perché c'è la bellezza, o che c'è la bellezza perché esistono cose belle?".
Bene
Come per il bello, anche per il B. abbiamo una dimensione oggettivistica e una soggettivistica, ma per quest'ultimo il contrasto è più diacronico che sincronico. La prima è tipica del mondo antico e medievale: Platone, Aristotele, Plotino, Tommaso parlavano infatti del B. in termini di verità, bellezza, conoscenza, Dio, ecc. Nel pensiero moderno e contemporaneo si parla invece del B. in relazione al soggetto che lo desidera, sia in senso individualistico-relativistico, sia (come in Kant o negli utilitaristi) in termini di legge universale.
Caso
Vi sono due definizioni fondamentali di questo termine: quella di C. come evento che non ha nessuna causa oggettiva e pertanto esclude ogni forma di determinismo; e quella di C. come evento di cui, semplicemente, non si conoscono le cause.
La prima concezione (oggettiva) fu affermata per la prima volta da Epicuro; la seconda (soggettiva) venne difesa soprattutto dagli stoici.
Categoria
Dal greco categorìa, significa "predicato". In Aristotele, per il quale le C. sono quei concetti che possono essere predicati di tutti gli altri e dei quali nulla si può predicare, sono dieci: sostanza, qualità, quantità, relazione, luogo, tempo, posizione, condizione, azione, passione.
Per Kant, invece, le C. non sono predicati della realtà stessa, ma le leggi o forme (a priori) di cui l'intelletto si serve per unificare i molteplici dati sensibili. Sono dodici, e Kant le suddivide in quattro gruppi: quantità (unità, pluralità, totalità), qualità (realtà, negazione, limitazione), relazione (sostanza, causa/effetto, reciprocità), modalità (possibilità, esistenza, necessità).
Causa-Causalità
La più antica formulazione del concetto di C. - indispensabile ai fini della spiegazione razionalistica dei fenomeni naturali, tipica del pensiero filosofico e scientifico occidentale - risale ad Aristotele, il quale distingue quattro tipi di C.: materiale (ciò di cui una cosa è fatta), formale (la forma o il modello di una cosa), efficiente (l'agente che fa essere la cosa), finale (il fine per cui una cosa viene prodotta). La scolastica diede poi risalto soprattutto al problema della causa prima, identificandola con Dio e facendola valere come prova della sua esistenza (argomento cosmologico). Il pensiero moderno si concentrò invece sulla causa efficiente, ponendola alla base del meccanicismo e del determinismo che caratterizzano la moderna concezione della natura.
La validità di questa concezione venne posta in dubbio nel '700 da Hume, per il quale il principio di causalità è una mera ipotesi: tra causa ed effetto, a suo giudizio, non vi è un legame necessario ma soltanto una connessione di fatto. A sua volta, Kant fece della relazione causale una categoria trascendentale dell'intelletto.
Ai nostri giorni, la crisi del modello meccanicistico-deterministico della natura, sostituito da un modello probabilistico, ha posto in secondo piano il valore del nesso causa-effetto.
Certezza
Quantunque collegato a quello della verità, il problema della C. è diverso: infatti, un conto è avere conoscenze vere, e un conto è essere certi di averle. La polemica scettica riguarda in fondo il problema della C., non quello della verità. In poche parole essa può così riassumersi: può darsi che io abbia delle conoscenze vere, ma non posso esserne certo.
Molti filosofi individuano nell'evidenza il criterio della C. Tuttavia a questo proposito c'è da notare che filosofie contemporanee ma distanti come quelle di Cartesio (razionalismo) e di Bacone (empirismo) adottano entrambe tale criterio ma, mentre per il primo l'evidenza si coglie con la ragione, per il secondo si coglie coi sensi.
La più recente teoria della verità manifesta, formulata da Karl Popper, non cambia di molto le cose: ciò che ci manca è un criterio intersoggettivo che assegni alle credenze soggettive il valore di universalità che attiene al concetto di C.
Cogito
Abbreviazione della celebre formula cartesiana: "Cogito, ergo sum", con la quale il grande filosofo francese affermava l'autoevidenza del soggetto pensante, cioè la certezza che l'uomo ha della propria esistenza tramite il pensiero.
Concetto
Nel senso più tradizionale indica l'essenza universale di una cosa o di una classe di oggetti, ed in tal senso, secondo Aristotele, scopritore del C. è Socrate. Tale concezione rimarrà lungo tutta la storia della filosofia: la ritroviamo ad esempio in Cartesio e Spinoza. Ma l'identificazione del C. con l'universale è propria anche di Kant, il quale oppone il C. all'intuizione (rappresentazione singolare), mentre nella filosofia contemporanea la ritroviamo nella fenomenologia di Husserl, che tuttavia preferisce il termine essenza a quello di "concetto".
Contingente
Opposto a necessità, questo termine indica ciò che è (ed è in un certo modo) ma potrebbe anche non essere (né essere in quel dato modo). Nel pensiero medievale, ad esempio, l'essere degli enti è C. rispetto all'essere necessario di Dio.
Contraddizione
C. è affermare e al tempo stesso negare una stessa cosa: infatti A non può essere Non-A. Parmenide formulò per primo il principio di non-contraddizione con la formula: "è impossibile che l'essere non sia e che il non-essere sia". Ripreso poi da Aristotele, tale principio è stato considerato irrefutabile da tutta la filosofia classica fino ad Hegel, che con la sua concezione dialettica afferma che "ogni cosa si contraddice in se stessa" e quindi vede la C. come la condizione essenziale di ogni processo.
Cosa in sé
Con questa espressione si indica in generale ciò ciò che sussiste in sé, indipendentemente dalla conoscenza umana. Kant la intende però come la realtà che sfugge al nostro conoscere ed impiega per essa il termine noùmeno in contrapposizione a fenomeno, col quale indica invece la nostra soggettiva percezione della cosa.
Coscienza
Nell'uso filosofico questo termini ha vari significati.
In primo luogo è sinonimo di interiorità (o "voce interiore"), con forte connotazione morale (Socrate, Agostino, Kant).
In secondo luogo, soprattutto a partire dal XVII secolo, equivale a consapevolezza soggettiva di sé e dei propri stati mentali (Cartesio per primo, e su tutti).
Nella filosofia contemporanea l'elaborazione più interessante la troviamo nella fenomenologia di Husserl che, pur partendo dalla C. tradizionalmente intesa (cioè come autointrospezione di esperienze vissute), recupera dalla scolastica il concetto di intenzionalità, sostenendo che la C. è sempre "coscienza di", le è essenziale il rapportarsi all'altro da sé, e il rapporto con l'oggetto è sempre un rapporto di natura logico-trascendentale e non psicologico.
Deduzione
In logica, è così chiamato il procedimento che va dall'universale al particolare, che cioè dall'analisi dell'universale deduce i particolari come conseguenze necessarie. Ad esempio, dall'affermazione "tutti i corvi sono neri" si dedurrà che "i corvi italiani sono neri". Nella D., insomma, le premesse contengono tutto ciò che è necessario per inferire la conclusione.
L'esempio più illustre di ragionamento deduttivo è certamente il sillogismo aristotelico. Tipica del razionalismo e della matematica, la D. si oppone alla induzione.
Determinismo-Indeterminismo
Il D. è la dottrina secondo cui ogni fenomeno è necessario effetto di una causa. D. è dunque sinonimo di meccanicismo ed è affermazione di universale necessità. In sostanza, secondo il D. non sono possibili né fenomeni casuali né azioni umane determinate da una libera scelta, in quanto tutto è predeterminato.
Il concetto di D. non va però confuso con quello tradizionale di destino: infatti, anche se quest'ultimo esclude l'esistenza del caso e della libertà umana, lo fa tuttavia attribuendo all'universo una necessità di tipo provvidenzialistico, cioè orientata verso fini e non determinata da cause.
Il D., che ha il suo antecedente più remoto nella dottrina di Democrito, è stato messo in crisi dall'abbandono del meccanicismo da parte della fisica, e in particolare dal principio di indeterminazione formulato nel 1927 da Heisenberg, con il quale si ammette il caso nella fisica atomica e quindi ricostruzioni probabilistiche e non più deterministiche dei fenomeni.
Più in generale le opposizioni al D., cioè l'indeterminismo, nel corso della storia della filosofia sono venute dalle dottrine spiritualiste (Boutroux, Bergson), che vedevano negate la libertà, l'azione provvidenziale della divinità e l'esistenza dell'anima.
Dialettica
Derivato dal greco dialéghestai (= "discutere, ragionare insieme"), questo termine ha assunto nel linguaggio filosofico vari significati. Da un lato, infatti, la D. è intesa come "arte del discutere", nel senso di dimostrare falsa una certa tesi mediante argomentazioni stringenti (in questo senso ne è considerato padre Zenone di Elea). Per altri equivale all'"arte di ragionare" dividendo e articolando i concetti (questo è il senso assegnatole da Platone, che la fa coincidere con la stessa filosofia). Per Aristotele la D. è una parte della logica e studia i ragionamenti che partono da premesse probabili, cioè generalmente ammesse ma non sicuramente vere. Dopo di lui, gli stoici e i pensatori medievali la considerarono sinonimo della logica stessa. Kant la giudicò come una sorta di sofistica, seppur naturale e inevitabile, che costruisce ragionamenti capziosi, basati su premesse non convalidate. Per Hegel invece la D. è la stessa realtà nel suo continuo divenire in quanto questa, identificata col pensiero, si scandisce appunto su un ritmo dialettico articolato in tre momenti: tesi (affermazione), antitesi (negazione) e sintesi (unificazione dei due momenti precedenti).
Dio
Termine che designa, in differenti epoche e culture, un'entità superiore dotata di poteri sovrumani, che rappresenta la ragion d'essere della realtà nella sua totalità e il fondamento dei valori spirituali. Può essere inteso come immanente all'universo (gli stoici, Spinoza) oppure come causa trascendente e creatrice del mondo (Aristotele, Tommaso d'Aquino). Può essere inoltre inteso come fine dell'universo (Aristotele), o come sommo Bene (Platone, Kant).
Divenire
Indica il perenne fluire di tutte le cose, in contrapposizione all'essere, concepito come eterno ed immutabile. Così vi è chi ha contrapposto il mondo del D. (apparenza) al mondo dell'essere (Parmenide, Platone) e chi invece ha colto nel D. l'essenza stessa della realtà (Eraclito, Hegel).
Dogmatismo
Qualunque posizione che parta da princìpi aprioristici, ritenuti indubitabili, ricavando da essi tutto un sistema di verità, indipendentemente da ogni accordo coi fatti e con l'esperienza. Si tratta dunque di un termine opposto a scetticismo.
Dubbio
Opposto a certezza, indica uno stato di perplessità e indecisione sia in senso conoscitivo che morale. In senso filosofico occorre però distinguere tra dubbio scettico o pirroniano, e dubbio metodico o moderato. Il primo ha un carattere radicale e universale e dichiara l'impossibilità di individuare un criterio di verità che permetta di distinguere il vero dal falso, giungendo perciò alla sospensione del giudizio. Il secondo, formulato da Cartesio, è inteso come mezzo per raggiungere una più profonda certezza.
Edonismo
Dal greco hedoné, che significa "piacere", indica appunto una concezione morale che identifica il bene col piacere, vissuto istante per istante. Non va confuso con l'eudemonismo e con l'utilitarismo, proprio perché contempla la ricerca del piacere attuale e presente, mentre le altre due dottrine intendono un piacere razionalmente calcolato.
L'E. è stato criticato a più riprese nella storia della filosofia, e in particolare da Kant, per il quale la moralità non può basarsi sul piacere.
Empirismo
Dal greco empeiría (= "esperienza"), indica quelle posizioni secondo cui la conoscenza è possibile solo attraverso l'esperienza. Da questa concezione derivano alcune importanti conseguenze: la negazione di ogni nozione innata, il rifiuto di ogni realtà sovrasensibile, la valorizzazione della realtà presente ai sensi, il riconoscimento dei limiti della conoscenza umana.
Già usato in età antica dallo scettico Sesto, detto appunto "Empirico", il termine designa in età moderna quella corrente filosofica, peraltro abbastanza eterogenea al suo interno, che ha i suoi massimi esponenti in Locke, Berkeley e Hume.
Ente
Ciò che è: un uomo, un albero, un cane, una stella...
Epistemologia
Dal greco epistéme (= "scienza") e logos (= "discorso"), indica lo studio dei fondamenti, della natura, dei limiti e della validità del sapere scientifico. Ha avuto un notevole sviluppo nel Novecento (Carnap, Russell, Popper), dopo la crisi del meccanicismo positivistico determinata dalle scoperte della fisica (come la teoria della relatività di Einstein).
Esistenza
Questo termine, che deriva dal latino existere (= "venir fuori", "uscire da") e che nel linguaggio comune è usato come sinonimo di vita, nel lessico filosofico ha un significato tecnico specifico.
In generale significa "ciò che è in atto", indipendentemente dal fatto di essere conosciuto o no.
La scolastica opponeva l'essenza all'E., poiché l'essenza indica la natura concettuale della cosa, la sua possibilità, mentre l'E. indica appunto il suo essere in atto, il suo ex-sistere ("venir fuori"). Perciò Anselmo d'Aosta diceva che in Dio E. ed essenza coincidono.
Il termine svolge un ruolo centrale nell'esistenzialismo, un movimento filosofico sorto in Europa fra le due guerre mondiali, che annovera pensatori importanti come Heidegger, Marcel, Jaspers, Sartre, e riconosce quali precursori filosofi come Kierkegaard e Nietzsche, ma anche scrittori come Dostoevskij e Kafka.
Esperienza
Il termine empeiría (= "esperienza") indica quella forma del conoscere che deriva dai sensi ed è perciò distinta dalla conoscenza intellettiva e razionale. Nella filosofia greca, dopo la distinzione parmenidea tra sentire e pensare, Platone operò una generale svalutazione della conoscenza sensibile a favore di quella razionale, mentre Aristotele intese l'E. come grado preparatorio del conoscere intellettivo. Gli scettici, invece, sottoposero al dubbio radicale sia l'esperienza sensibile (in quanto relativa e mutevole), sia la conoscenza razionale (in quanto esige la conoscenza di princìpi intuitivamente veri, la cui esistenza è però problematica).
Nel corso della filosofia successiva il rapporto E.-ragione ha costituito un elemento costante sia dell'empirismo che del razionalismo.
Essenza
Nozione aristotetica che indica "ciò per cui una cosa è ciò che è", ovvero ciò che appartiene necessariamente a un ente, in contrapposizione ad accidente, ovvero a ciò che appartiene a un ente solo contingentemente. Questa concezione dipende dalla teoria della sostanza, poiché per Aristotele l'E. inerisce alla sostanza. La scolastica si concentrò poi sul rapporto fra E. ed esistenza, e in tale ambito Tommaso d'Aquino sostenne che solo in Dio non vi è distinzione fra E. ed esistenza, essendo l'unico ente che esista necessariamente, la cui esistenza è implicita cioè nella sua essenza.
Nella filosofia moderna, in particolare a partire da Locke, questa problematica scompare, o meglio la nozione di E. perde la sua valenza ontologica per trasferirsi sul piano logico e linguistico.
Già con Hegel, tuttavia, il termine riacquista valore ontologico, in coppia opposizionale con la nozione di fenomeno. In questo senso, che è penetrato anche nel linguaggio comune, l'E. indica la struttura profonda della realtà in contrapposizione alla sua manifestazione immediata.
Nel Novecento, l'esistenzialismo ha rivendicato un primato dell'esistenza sull'E., nel caso privilegiato dell'uomo: "L'uomo è ciò che si fa", ha scritto Sartre. Si suole perciò contrapporre l'esistenzialismo all'essenzialismo, qualificando con quest'ultimo termine le dottrine della metafisica classica, che collocano il principio d'intelligibilità di un ente appunto nella sua E.
Essere
Concetto fondamentale in tutta la storia del pensiero occidentale, ma anche uno dei più ambigui ed oscuri dell'intero lessico filosofico.
La distinzione primaria e più importante è fra l'uso predicativo, quando il verbo "essere" ha funzione di copula ("Socrate è mortale"), e l'uso assoluto o esistenziale, quando esso serve ad affermare l'esistenza di qualcosa ("Socrate è"). Parmenide, come rileva già Aristotele, non distingue tra queste diverse funzioni, e questa indeterminazione è alla base del suo rigido monismo. Lo stesso Aristotele afferma invece che l'E. "si dice in molti modi": il termine, cioè, può assumere molti sensi (pollachòs), e non un senso soltanto (monachòs).
Inoltre, come nota Abbagnano, in contrapposizione al nulla E. esprime ciò che in qualsiasi senso è positivo. In contrapposizione al divenire indica ciò che è stabile e non soggetto a mutamento. In contrapposizione ad apparenza indica ciò che ha realtà.
In senso metafisico è il fondamento del Tutto.
Eudemonismo
Dottrina morale secondo cui il fine dell'agire umano è la felicità (in greco eudaimonía), individuale o collettiva che sia (ma in quest'ultimo caso è più esatto parlare di utilitarismo).
Evidenza
In generale, ciò che non può essere sottoposto a dubbio in quanto vero per se stesso e non ha quindi bisogno di dimostrazione. Tuttavia non c'è concordanza sul concetto di E.: per il razionalismo è questione di ragione (e così per Platone è evidente la conoscenza delle idee, che nessuno vede), mentre per l'empirismo è questione di esperienza (e così ognuno vede il sole ruotare intorno alla terra, ma tutti sanno che non è vero). Evidentemente, il concetto di E. non è evidente.
Fenomeno
Dal greco phainómenon (= "ciò che si manifesta"), indica tutto ciò che appare, che cade sotto i sensi (fenomeno interno) o comunque si manifesta alla coscienza (fenomeno esterno).
Nella tradizione filosofica antica, il significato prevalente di F. è quello di "apparenza sensibile": tale apparenza, però, può essere ritenuta fallace, ingannevole (Platone), oppure effettivamente vera (Aristotele).
La più compiuta teoria del F. è stata elaborata da Kant, anche attraverso la distinzione tra il F. stesso e il noùmeno.
Forma
Generalmente contrapposto a materia, indica quella che è l'essenza di una cosa. Ad esempio, la F. di un tavolo non è il suo essere di legno o di ferro, ma ciò per cui è tavolo. In questo senso Platone chiama forma pura l'idea, ed Aristotele, opponendola a ciò che è in potenza, indica con F. l'atto, la realtà concretamente attuata come individuo (che è appunto unione di materia e forma).
Kant dà a F. un significato trascendentale: forme a priori sono per lui le leggi del nostro modo di sentire e di conoscere.
Giudizi analitici
Sono così chiamati da Kant i giudizi in cui il predicato è già implicito nel soggetto e quindi non comporta un aumento di conoscenza (Ad esempio: "i corpi sono estesi, oppure "gli scapoli sono uomini"). Sono quindi giudizi a priori, e sono tipici del razionalismo.
Giudizi sintetici
Kant chiama così i giudizi in cui il predicato non è implicito nel soggetto ma si aggiunge (sintesi) ad esso in virtù dell'esperienza (Ad esempio: "i corpi sono pesanti"). Sono quindi giudizi a posteriori, e sono tipici dell'empirismo.
Giudizi sintetici a priori
Sono i giudizi tipici della filosofia kantiana: sono sintetici perché si aggiunge qualcosa al dato, ma ciò che si aggiunge non è dovuto all'esperienza bensì all'attività pura della ragione.
Idea
Dal greco idéa, eidos (= "forma visibile"), ha due significati fondamentali e diversi: 1° specie unica, intelligibile, modello della realtà sensibile, e dunque alla molteplicità sensibile contrapposto; 2° qualsiasi oggetto del pensiero umano, sinonimo quindi di rappresentazione. Nel primo senso è stato utilizzato da Platone e dagli scolastici; nel secondo da Cartesio, dagli empiristi e nel linguaggio comune.
Da Cartesio ha inizio la discussione sull'origine delle idee, che vede contrapposti i razionalisti (Spinoza, Malebranche, Leibniz), fautori dell'innatismo, e gli empiristi (Locke, Berkeley, Hume), che ritenevano tutte le idee derivate dall'esperienza.
Ad un significato diverso di I. giunge Kant, che la considera oggetto della ragione (anima, mondo, Dio) in contrapposizione agli oggetti dell'intelletto (i fenomeni).
Idealismo
Termine d'origine seicentesca (Leibniz), usato per designare la filosofia platonica delle idee, considerate come i veri enti.
Con I. si indicano però anche altre posizioni filosofiche. Se infatti l'I. platonico coincide col realismo (in quanto le idee esistono indipendentemente dal pensiero che le pensa), l'I. di Berkeley riduce l'oggetto del conoscere al soggetto conoscente, nel senso che l'essere delle cose consiste nell'esser percepito dal soggetto pensante ("Esse est percipi", cioè "Essere è essere percepito").
Si parla ancora di I. trascendentale (o critico) per Kant e di I. assoluto per Hegel.
Identità, principio di
Principio fondamentale della logica formale, enunciato da Aristotele e solitamente espresso nella forma "A = A". Si può anche enunciare con la formula: "ciò che è, è; ciò che non è, non è". Insomma, logicamente è vero ciò che non è in contraddizione con se stesso.
Nella logica matematica del Novecento questo principio ha perso d'importanza.
Immanente
Dal latino immanere (= "restar dentro"), si oppone a trascendente e a transeunte (= "che passa) per indicare ciò che permane all'interno di un essere. Così per immanentismo si intendono quelle posizioni che pongono il principio della realtà (comunque inteso) in seno alla realtà stessa.
Inconscio
Nella storia della filosofia, il termine I. appare per la prima volta in Leibniz, che parlò di piccole percezioni non accompagnate da consapevolezza o riflessione. Anche Kant, Schiller e Schopenhauer vi fanno riferimento. Ma è con Freud che la nozione di I. riceve una vera e propria sistemazione. In sintesi, si può dire che l'I. per Freud non rappresenta il limite inferiore del conscio bensì la realtà psichica primaria e fondamentale, di cui il conscio è solo l'aspetto minimo e visibile. Fra le due zone Freud colloca il preconscio, in cui i ricordi (momentaneamente inconsci) possono divenire consci. I contenuti rimossi nell'I., per emergere, richiedono invece l'utilizzo di tecniche apposite (associazioni libere, transferti, interpretazione dei sogni).
Induzione
Opposta a deduzione, in logica viene definita come "il procedimento che dai particolari porta all'universale". Essa è dunque quella forma di ragionamento che dai fatti concreti risale alle leggi o ai princìpi generali. Ad esempio, dalla constatazione che tutti "i corvi italiani sono neri, i corvi francesi sono neri..." si indurrà che "tutti i corvi sono neri". Si capisce bene che un solo controesempio (nel nostro caso, la presenza di un corvo bianco) inficia la validità di tale procedimento. E difatti, quantunque tipica dell'empirismo, la logica induttiva fu già criticata da Hume e poi, nel Novecento, da Karl Popper.
Innatismo
Dottrina che sostiene la presenza nell'uomo (fin dalla nascita) di conoscenze o princìpi non derivati dall'esperienza, e che anzi rendono possibili l'esperienza stessa. La prima dottrina innatista è quella platonica dell'anamnesi.
Male
Termine ricco di tanti significati, come il suo correlativo, il bene. In generale si distingue in fisico e morale.
Metafisicamente, il problema del male consiste nel ricercare che consistenza reale e che significato esso abbia nella totalità dell'universo, e più propriamente nel ricercare come possa conciliarsi la sua presenza nel mondo con la derivazione di questo da un principio divino di bene. Questo problema ha due soluzioni opposte: quella negativistica (Plotino, Agostino) per cui il male non ha una sua realtà positiva ma è soltanto una mancanza o privazione di bene (come l'oscurità non è che il venir meno della luce); e quella dualistica, per cui accanto e contro al principio cosmico del bene vi è un altro principio cosmico egualmente originario da cui deriva tutto ciò che vi è di anormale e di disordinato nel mondo (manicheismo).
Materia
Termine che, in filosofia, ha vari significati: 1° M. come sostrato e/o potenzialità; 2° M. come estensione; 3° M. come forza. Il primo significato è presente in Platone ed Aristotele, il secondo in Cartesio, il terzo in Leibniz, Newton e Kant.
Materialismo
In senso generale, e in contrapposizione ad ogni forma di idealismo e di spiritualismo, il termine M. indica quelle concezioni che non ammettono altra sostanza che la materia, negando l'esistenza di enti spirituali. Anche se il termine compare per la prima volta nell'Europa del Seicento, vengono considerate materialiste anche alcune filosofie dell'età antica, in particolare quelle di Democrito e di Epicuro.
Meccanicismo
Dottrina che, escludendo ogni finalità, ripone l'essenza della realtà nel movimento. Tale movimento si attua secondo leggi necessarie, per cui tutti i fenomeni sono connessi in una cieca catena di cause ed effetti.
Metempsicosi
Antica dottrina religioso-filosofica secondo cui l'anima (psyché), di origine divina e quindi eterna, alla morte di un corpo passa in un altro corpo, e così via finché non si sia purificata.
Mònade
Questo termine, che significa "unità semplice e indivisibile", fu già usato dai pitagorici ma è stato reso celebre da Leibniz, il quale considera l'universo costituito appunto da infinite sostanze spirituali (le monadi appunto), ognuna rispecchiante l'universo ma ciascuna chiusa in se stessa ed incomunicabile con le altre ("senza finestre", dice il filosofo), e tuttavia tutte armonizzate tra loro dalla Monade Suprema che è Dio, secondo un'"armonia prestabilita".
Monismo
Tutte quelle posizioni secondo cui l'essenza della realtà è unica, e i singoli enti non sono che modi di essere dell'unica sostanza, materiale o spirituale che essa sia.
Necessità
Opposto a contingente, indica in generale ciò che non può essere diversamente da com'è. Si possono tuttavia distinguere tre significati: 1° N. fisica e causale, come subordinazione alle leggi di natura; 2° N. logica, come proprietà di ciò che è vero in virtù di certe leggi del pensiero; 3° N. morale, come ciò che è obbligatorio e doveroso per la coscienza.
Nichilismo
Dal latino nihil (= "nulla"), indica in generale una dottrina che nega in modo radicale un determinato sistema di valori.
Il primo a usare in senso positivo questo termine è Max Stirner, che considera "nichilista" la negazione di tutte le astrazioni (il progresso, la storia, l'umanità) che, a suo giudizio, opprimono e schiacciano l'uomo.
Nietzsche usa poi il termine N. per indicare la decadenza prodotta dal dualismo platonico fra mondo delle idee e mondo sensibile, da cui, a suo giudizio, derivano i falsi valori (trascendenti) che hanno dominato la civiltà occidentale. Lo smascheramento così operato, che Nietzsche compendia con l'espressione "Dio è morto", produce un'angoscia profonda perché pone l'uomo di fronte al nulla e alla mancanza di senso; ma ha anche un risvolto positivo, poiché apre la possibilità di una "trasvalutazione di tutti i valori" e, quindi, prepara l'avvento di una nuova umanità.
Non-essere
Opposto a essere, è sinonimo del nulla. Come l'essere è indefinibile: definire l'essere, infatti, è limitarlo e negarlo; e definire il non-essere è affermarlo e dunque negarlo. Per cui: o si esclude il non-essere, come Parmenide; o s'intende il non-essere in senso platonico, come alterità, cioè come ciò che permette il diverso; o infine si pensa il non-essere in correlazione all'essere, come possibilità del divenire, come fanno Eraclito e (in un senso diverso) Hegel.
Noùmeno
Da nous (= "intelletto"), significa "oggetto di pensiero" ed è un termine introdotto da Kant in contrapposizione a fenomeno per indicare la conoscenza (umanamente impossibile) della cosa in sé.
Nulla
In filosofia ha due significati particolari: 1° N. come non-essere (Parmenide); 2° N. come alterità o negazione (Platone).
Panteismo
Da pan (= "tutto") e thèos (= "Dio"), designa quelle dottrine che identificano la divinità con il mondo; Dio, cioè, è l'universo stesso nella sua totalità. La sua sistemazione più coerente si trova in Spinoza.
Postulato
Indica un principio che non si può teoricamente dimostrare ma che viene affermato in quanto rende possibile la spiegazione di certi fatti che non possono essere contestati. Kant, ad esempio, postula l'esistenza di Dio come fondamento della moralità.
Potenza
Termine che in generale indica ciò che ha in sé la possibilità di agire. Di grande importanza nel linguaggio aristotelico, dove indica la possibilità della materia di assumere una determinata forma e quindi di realizzarsi in atto.
Psiche
Dal greco psyché (= "soffio, respiro"), questo termine significa in generale anima, ma in realtà ha un'area semantica più ampia e viene così identificato di volta in volta anche con vita, spirito, coscienza.
Oggi, più particolarmente, indica quell'aspetto dell'anima che si rivela non nella sua attività spirituale ma in quella meccanica, naturale.
Ragion sufficiente, principio di
Formulato da Leibniz, si affianca a quello di identità e di non-contraddizione. Afferma che niente può esistere o accadere, né alcun giudizio può essere espresso, se non vi è una ragione sufficiente [Ma sufficiente per chi?] che sia così e non altrimenti.
Razionalismo
In generale, in contrapposizione ad empirismo, indica tutte quelle posizioni che ritengono di poter cogliere l'essenza della realtà mediante la ragione, indipendentemente dai sensi e quindi da ogni esperienza. Tali, ad esempio, le dottrine di Platone, Cartesio, Hegel, Bergson.
Realismo
Opposto a idealismo, indica quelle posizioni secondo cui vi è una realtà indipendente dal soggetto pensante.
Relativismo
Indica tutte quelle posizioni secondo cui non vi sono verità assolute nell'ambito della conoscenza o princìpi immutabili e validi universalmente in ambito morale, ma tutto è relativo ai diversi individui e alle diverse condizioni di tempo e di luogo. Si parla pertanto di R. gnoseologico e di R. morale. Predicato dai sofisti e dagli scettici nella filosofia antica, in quella moderna è presente in Montaigne e Hume.
Scetticismo
Storicamente, lo S. - dal greco schèpsis (= "ricerca, esame, dubbio") - è una corrente filosofica sorta nel mondo antico con Pirrone di Elide, ma designa in generale l'atteggiamento di coloro che negano la possibilità di conoscere in modo certo, e quindi la possibilità di formulare giudizi di verità irrifutabili.
Il termine "scettico" si è diffuso ampiamente nel linguaggio comune, ad indicare chi è incredulo o dubita di qualcosa in generale.
Sillogismo
Per Aristotele è il ragionamento deduttivo per eccellenza, in base a cui, date certe premesse, seguono necessariamente certe conclusioni. L'esempio classico, riportato da quasi tutti i manuali scolastici, è il seguente: "Tutti gli uomini sono mortali; Socrate è un uomo; dunque Socrate è mortale".
Sofisma
In logica, ragionamento apparentemente valido ma in effetti falso, che tende (volontariamente o meno) a trarre in inganno.
Soggetto
Nell'uso filosofico questo termine ha innanzi tutto un significato logico-ontologico: S. è inteso cioè come ciò di cui si parla. Ma a partire da Cartesio tale termine ha assunto un significato gnoseologico: sta cioè ad indicare l'io-pensante, la coscienza, e in questa accezione è contrapposto all'oggetto. Contro questa seconda accezione, dunque contro il cogito cartesiano, si sono scagliati in età recente Nietzsche e poi Heidegger, che nella contrapposizione fra S. e oggetto coglie il vizio di origine della filosofia occidentale.
Solipsismo
Malinconica tesi, consistente nel ritenere la propria coscienza o il proprio io come la sola realtà esistente (col rischio di sentirsi nel mondo come la povera bollicina di sodio nell'acqua Lete).
Sostanza
Dal greco ousia e dal latino substantia (= "ciò che sta sotto", "a fondamento di", "essenza necessaria"), indica in generale ciò che vi è di permanente e necessario nelle cose che mutano. La S. assume quindi un significato metafisico e può essere sinonimo di essere.
In particolare, si tratta di un concetto cardine nella filosofia di Aristotele, che la definisce come ciò che esiste di per sé, ed anche come sinolo (= "unione") di materia e di forma.
Più tardi Cartesio dirà che oltre alla S. divina vi sono le sostanze derivate (pensante ed estesa), mentre Spinoza tornerà all'ipotesi della S. unica (Dio o Natura) e Leibniz a sua volta parlerà di una pluralità si sostanze (mònadi).
Spazio
Con questo termine, in generale, si intende un'estensione illimitata nella quale si collocano i corpi. In filosofia, la cosa è più complicata. Può essere infatti concepito come reale, assoluto, cioè come indipendente dagli oggetti che sono in esso; oppure come relazione pura, ordinamento dei corpi nella loro esteriorità e posizione reciproca; o ancora come idea astratta, dovuta al modo di presentarsi delle percezioni ed impressioni puntuali; o infine come forma a priori della sensibilità.
Se la definizione non è chiara, mi dispiace, ma purtroppo non abbiamo altro spazio per ulteriori delucidazioni.
Spirito
Dal greco pnéuma (= "soffio, aria, respiro"), stava originariamente ad indicare il principio che dà vita, cioè "anima", e che in vita mantiene. Metafisicamente, è stato inteso - in opposizione a materia - come sostanza incorporea immateriale, immortale e soprasensibile. In opposizione a natura, che implica il concetto di meccanicità e necessità, S. viene inteso come attività spontanea, come libertà. In generale sta ad indicare il mondo dell'interiorità in tutto il suo complesso, il soggetto.
Tabula rasa
Già Aristotele, e più tardi gli stoici, usarono questa espressione (che vuol dire "tavoletta liscia") per indicare che la mente non ha in sé alcuna idea innata. Fu ripresa da Locke, e dall'empirismo in genere, per sostenere appunto che l'intelletto non possiede in sé alcuna idea indipendente dall'esperienza.
Tautologia
Dal greco tautó (= "medesimo") e lógos (="discorso"), indica una proposizione in cui vi è identità fra il soggetto e il predicato. Sinonimo di "lapalissiano".
Teismo
Dottrina religiosa (ad esempio il giudaismo, il cristianesimo, l'islamismo) secondo cui esiste un Dio personale, creatore del mondo, trascendente, giusto, misericordioso, onnisciente e onnipotente.
Teleologia
Dal greco télos (= "fine") e lógos (="discorso"), indica lo studio della finalità, la discussione intorno allo scopo (e quindi in definitiva al senso) della vita e del mondo.
Tempo
Per quanto ne parliamo quotidianamente, questo è uno dei concetti più difficili della filosofia. Il problema del T. è stato infatti discusso ed inteso in sensi molteplici: 1° come avente un'esistenza reale, assoluta, indipendente dal soggetto; 2° come astrazione ed entificazione mentale del rapporto di successione dei fatti e delle impressioni; 3° come forma a priori della sensibilità.
Di contro ad ogni concezione del T. come spazializzazione nel lineare ritmo passato-presente-futuro, si oppone la concezione del tempo come durata (o tempo della coscienza): già Sant'Agostino, molto profondamente, aveva concepito il tempo come "reale" non in sé, ma nell'anima, e cioè come continua presenza che si distende fra passato (memoria) e futuro (immaginazione).
Se la definizione non è chiara, mi dispiace, ma purtroppo non abbiamo altro tempo per ulteriori delucidazioni.
Teodicea
Questo termine, che deriva dal greco díke (= "giustizia) e theós (= "Dio") fu usato da Leibniz per intitolare una sua opera che, appunto, parla della giustizia divina. In esso il filosofo tende a giustificare l'esistenza del male nel mondo, e critica quelle dottrine che ritengono incompatibile la sua presenza con l'esistenza di Dio. Il termine è appunto rimasto per indicare le discussioni intorno al problema del male.
Teologia
Studio di Dio e dei suoi attributi, dei suoi rapporti con il mondo e con l'uomo. Aristotele usa questo termine per indicare la filosofia prima, cioè l'indagine e la discussione sulle cause prime, e quindi, in definitiva, su Dio.
Terzo escluso, principio del
Principio fondamentale della logica aristotelica, che si suole così formulare: "A è o non è B". Insomma, tra due affermazioni contraddittorie non c'è via di mezzo: o è vera una oppure l'altra; una terza possibilità è appunto esclusa.
Trascendentale
Nella scolastica è quasi sinonimo di trascendente. Con Kant, invece, il termine assume un significato particolare: indica infatti una condizione gnoseologica, cioè un modo di conoscere ciò che non deriva dall'esperienza (quindi T. si oppone ad empirico) ma è riferibile solo a dati forniti dall'esperienza stessa (così T. si oppone anche a trascendente). Ad esempio, in quanto forme a priori, sono trascendentali il tempo, lo spazio, le categorie.
Trascendente-Trascendenza
Il primo termine, in contrapposizione a immanente, indica ciò che è al di là o al di sopra del mondo sensibile, sia da un punto di vista conoscitivo, sia dal punto di vista della realtà. Da qui il secondo termine, per indicare sia la caratteristica del divino, sia la necessità della sua esistenza indipendentemente dal mondo (Dio, cioè, sussisterebbe anche se il mondo cessasse di esistere).
Universale
In logica, è il concetto o l'idea o l'essenza comune a tutte le cose che designiamo con un solo nome. In Aristotele, che ne attribuisce la scoperta a Socrate, gli universali sono le categorie, in quanto son predicato di tutto mentre di esse nulla si può predicare.
Il problema degli universali è stato fondamentale nella scolastica. Gli universali (i concetti, le idee) hanno una loro realtà per sé stante o non sono che nomi, etichette verbali? La risposta alla prima parte della domanda si qualifica come realismo, e la risposta alla seconda parte si denomina nominalismo. Tra queste due tesi estreme si pone il concettualismo, per cui gli universali, anche se non sono "reali" antecedentemente alle cose individuali (ante rem), e neanche in quanto immanenti ad esse (in re), hanno tuttavia una realtà mentale, un significato che si concreta nell'universalità del concetto, costruita in base all'esperienza delle cose (post rem).
Verità
Termine fondamentale, non solo per la filosofia, concernente la validità della nostra conoscenza.
In via preliminare occorre dire che la V. risiede nel linguaggio (e nel pensiero), non nella realtà; la realtà costituisce però il criterio della V. Perciò l'enunciato "la roccia è dura" sarà vero se e solo se la roccia è effettivamente dura.
Le cose non sono tuttavia così semplici, perché bisogna distinguere tra V. logiche (tipo "A = A" o "1 + 1 = 2") e V. fattuali (tipo "Sta piovendo" o "L'erba è verde"). Le prime fondano la teoria della V. come coerenza (rispetto delle regole di un sistema), le seconde la teoria della V. come corrispondenza (coincidenza dell'enunciato con l'esperienza). Le prime sono sempre o vere o false; il valore delle seconde dipende dal contesto. Dunque le prime sono necessarie, le seconde contingenti.
Weltanschauung
Termine tedesco che significa "visione del mondo", sotto diversi aspetti: artistico, letterario, culturale.
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