• Leggiamo la parte finale del Fedone, uno dei dialoghi platonici maggiormente apprezzati dalla critica e dai lettori... Fedone, uno dei più giovani fra gli amici di Socrate che avevano assistito alla morte del maestro, viene pregato da Echecrate di narrare le ultime ore di Socrate.
    [...] E venne il ministro degli Undici e, standogli in piedi davanti: Socrate, disse, non ti farò il torto di credere che sarò trattato da te come dagli altri, che se la pigliano con me e mi maledicono, quando vengo ad annunziar loro che devono bere il veleno per ordine dei magistrati. Di te, durante questo tempo, ho avuto molte occasioni per convincermi che sei l'uomo più generoso, più mite e il migliore tra quanti sieno mai capitati qui dentro; ed anche ora so bene che non te la piglierai con me, ma con quelli che ci hanno colpa; e tu li conosci. Sicché tu sai ora che cosa sono venuto ad annunziarti... Addio dunque, e cerca di sopportare alla meglio quello a cui non ti puoi sottrarre... E, così dicendo, scoppiò in lacrime e, voltate le spalle, andò via.
    E Socrate, seguendolo con lo sguardo: E a te pure addio, rispose; e noi faremo come tu dici. E poi, voltosi a noi: Che persona gentile!, soggiunse. In tutto questo tempo è venuto spesso a vedermi, e talvolta si tratteneva con me, ed era il migliore degli uomini. E adesso con che cuore mi piange! Ma via, Critone, obbediamogli, e mi si porti il veleno, se è pestato: se no, lo si pesti. E Critone: Ma, dice, Socrate, se non erro, il sole è tuttora sui monti e non per anco tramontato. E so d'altri che bevono assai tardi, poiché glien'è dato l'avviso, e dopo d'aver mangiato e bevuto a volontà loro, e taluni perfino dopo d'aver preso piacere con chi desiderassero. Perciò, almeno, non affrettarti; c'è tempo ancora.
    E Socrate: Quelli, disse, dei quali mi parli, Critone, è naturale che facciano così: essi pensano che a far così sia tanto di guadagnato per loro; ma io ho ragione di non farlo, giacché a bere un po' più tardi non credo di guadagnarci altro che di rendermi ridicolo a' miei propri occhi, attaccandomi alla vita e lesinando quando non c'è rimasto più nulla. Via, su, dammi retta, e non fare altrimenti.

    E Critone, uditolo, fe' cenno a un suo servo che gli era accanto in piedi; e questi, uscito e rimasto fuori qualche tempo, tornò introducendo l'uomo incaricato di dare il veleno che portava sciolto in un bicchiere. E Socrate, come lo vide: Bene, gli disse, brav'uomo; tu ne sei pratico: che cosa devo fare?
    Nient'altro, rispose, che passeggiare dopo averlo bevuto, finché avvertirari un peso nelle gambe; poi metterti a letto. Il resto lo farà da sé. - E così detto, porse il bicchiere a Socrate.
    Questi lo prese, e con molta serenità, senza tremare, senza mutare né colore né cera, ma, come soleva, fissando l'uomo col suo sguardo taurino: Che ne dici?, gli chiese, di questa bevanda si può libarne ad un dio, o no? Socrate, l'altro rispose, noi ne pestiamo soltanto la dose ritenuta necessaria.
    Ho capito, disse. Ma almeno pregar gli dei, perché sia felice questa mia trasmigrazione di qui colà, si potrà, credo, e sarà bene. Ed è questa anche la mia preghiera; e così sia! E, detto ciò, accostò il bicchiere alle labbra, e tutto d'un fiato, senza un segno di disgusto, lo vuotò lietamente.
    Sino a quel punto, i più tra noi erano riusciti a trattenere il pianto; ma come lo vedemmo bere e aver bevuto, non ne potemmo più; e a me le lagrime, mio malgrado, vennero giù a fiotti; sicché, copertomi il viso, piansi me stesso, oh!, non certo lui, ma la sventura mia, che rimanevo privo d'un tale amico. Critone, dal canto suo, incapace di frenare il pianto, anche prima di me s'era levato in piedi per allontanarsi, mentre Apollodoro, che anche per l'innanzi non aveva mai cessato di piangere, allora, gittato un urlo, proruppe in tali lamenti e gemiti che non ci fu tra' presenti chi non si sentisse spezzare il cuore, ad eccezione di lui, Socrate. Il quale: Che cosa fate, disse, miei buoni amici? Se ho mandato via le donne, l'ho fatto soprattutto perché non s'abbandonassero a codesti eccessi. E poi ho anche sentito che si deve finire tra voci di buon augurio. Siate dunque calmi e forti.
    A queste parole noi arrossimmo e ci trattenemmo dal piangere. Egli camminò in su e in giù per la stanza; ma poiché ebbe detto che le gambe gli si facevano grevi, si mise a giacere supino, come gli aveva raccomandato quell'uomo; e questi, l'uomo che gli aveva portato il veleno, lo andava palpando, e di tratto in tratto gli esaminava i piedi e le gambe; e quindi, premendogli forte un piede, gli domandò se sentisse; e Socrate risposte di no; e di lì a poco gli premette le gambe; e, risalendo via via con la mano, ci mostrava come s'andasse raffreddando e irrigidendo. E poi lo toccò ancora, e ci disse: Quando il freddo sarà giunto al cuore, se n'andrà. Già gli si erano quasi raffreddate le parti intorno all'addome, quand'egli - Critone, disse - e furono le sue ultime parole - siamo in debito d'un gallo ad Asclepio1; offriteglielo; non ve ne dimenticate.
    Sarà fatto, risposte Critone, ma guarda se hai altro da dire.
    A questa domanda non rispose più nulla. Poco dopo ebbe un lieve sussulto; l'uomo lo scoperse; avevo lo sguardo fisso. E Critone, visto ciò, gli chiuse la bocca e gli occhi.

    Questa, Echecrate, fu la fine del nostro amico, un uomo - possiamo ben dirlo - tra quelli di cui a quei tempi abbiamo fatta esperienza, il migliore, anzi addirittura il più saggio e il più giusto di tutti.

    Fedone [trad. di E. Martini], in Platone, Tutte le opere, Sansoni, Firenze 1974, pp. 108-109.


    NOTE
    1 Asclepio è il nume della medicina; a lui, però, solevano offrire un gallo quelli che guarivano da una malattia... Vi è dunque da leggere nelle parole di Socrate una sottile ironia, o più probabilmente qualcosa di più profondo.