• Insieme a quelle destinate ad Erodoto e a Pitocle, la Lettera a Meneceo ci è stata tramandata da Diogene Laerzio (III secolo d.C.), nel capitolo X del suo libro Vite e opinioni dei filosofi illustri. Si tratta di una sintesi perfetta, che sgombera il campo da ogni incomprensibile malinteso sul vero senso dell'etica epicurea.
    122 Né il giovane indugi a filosofare né il vecchio di filosofare sia stanco. Non si è né troppo giovani o troppo vecchi per la salute dell'anima. Chi dice che non è ancora giunta l'età di filosofare, o che l'età è già passata, è simile a chi dice che per la felicità non è ancora giunta o è passata l'età. Cosicché filosofare deve e il giovane e il vecchio: questi perché invecchiando sia giovane di beni per il grato ricordo del passato, quegli perché sia a un tempo giovane e maturo per l'impavidità nei confronti dell'avvenire. Meditare bisogna su ciò che procura la felicità, poiché invero se essa c'è abbiamo tutto, se essa non c'è facciamo tutto per possederla.
    123 Le cose che ti ho raccomandato mettile in pratica e meditale reputandole i principi fondamentali necessari a una vita felice. Per prima cosa considera la divinità come un essere indistruttibile e beato, secondo quanto suggerisce la nozione del divino, e non attribuire ad essa niente che sia estraneo all'immortalità o discorde dalla beatitudine.; riguardo ad essa pensa invece tutto ciò che è capace di preservare la felicità congiunta all'immortalità. Gli dèi esistono: evidente è infatti la loro conoscenza; non esistono nella maniera in cui li considerano i più, perché così come li reputano vengono a toglier loro ogni fondamento di esistenza.
    124 Empio poi non è colui che gli dèi del volgo rinnega, ma chi le opinioni del volgo applica agli dèi, poiché non sono prenozioni ma fallaci presunzioni i giudizi del volgo a proposito degli dèi. Da ciò i più grandi danni e vantaggi si ritraggono dagli dèi; essi infatti, dediti di continuo alle loro proprie virtù, accolgono i loro simili, e tutto ciò che non è tale considerandolo come estraneo.
    Abìtuati a pensare che nulla è per noi la morte, poiché ogni bene e ogni male è nella sensazione, e la morte è privazione di questa. Per cui la retta conoscenza che niente è per noi la morte rende gioiosa la mortalità della vita; non aggiungendo infinito tempo, ma togliendo il desiderio dell'immortalità.
    125 Niente c'è infatti di temibile nella vita per chi è veramente convinto che niente di temibile c'è nel non vivere più. Perciò stolto è chi dice di temere la morte non perché quando c'è sia dolorosa ma perché addolora l'attenderla; ciò che, infatti, presente non ci turba, stoltamente ci addolora quando è atteso. Il più terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è la morte, quando c'è la morte noi non siamo più. Non è nulla dunque, né per i vivi né per i morti, perché per quelli non c'è, questi non sono più. Ma i più, nei confronti della morte, ora la fuggono come il più grande dei mali, ora come cessazione dei mali della vita la cercano.
    126 Il saggio invece né rifiuta la vita né teme la morte; perché né è contrario alla vita, né reputa un male il non vivere. E come dei cibi non cerca certo i più abbondanti, ma i migliori, così del tempo non il più durevole, ma il più dolce si gode. Chi esorta il giovane a viver bene e il vecchio a ben morire è stolto, non solo per quel che di dolce c'è nella vita, ma perché uno solo è l'esercizio e ben vivere e ben morire. Peggio ancora chi dice: "bello non esser nato, ma, nato, al più presto le soglie dell'Ade".
    127 Perché, se parla così convinto, non lascia la vita? Ciò è nel suo pieno potere, se questa è la sua sicura opinione. Se scherza, agisce da stolto in cose che non lo comportano.
    Si deve ricordare ancora che il futuro non è né del tutto nostro, né del tutto non nostro, affinché né ci aspettiamo che assolutamente si avveri, né disperiamo come se assolutamente non si avveri.
    E analogamente bisogna pensare che dei desideri alcuni sono naturali, altri vani; e di quelli naturali alcuni necessari, altri solo naturali; e di quelli necessari, alcuni lo sono per la felicità, altri per il benessere del corpo, altri per la vita stessa.
    128 Infatti una giusta conoscenza di essi sa riferire ogni atto di scelta e di rifiuto alla salute del corpo e alla tranquillità dell'anima, poiché questo è il termine entro cui la vita è beata. Perché è in vista di questo che compiamo tutte le nostre azioni, per non soffrire né avere turbamento. Quando ciò noi avremo ogni tempesta dell'anima si placherà, non avendo allora l'essere animato alcuna cosa da appetire come a lui mancante, né altro da cercare con cui rendere completo il bene dell'anima del corpo. È allora infatti che abbiamo bisogno del piacere: quando soffriamo perché esso non c'è; quando non soffriamo, non abbiamo bisogno del piacere.
    129 E per questo noi diciamo che il piacere è principio e termine estremo di vita felice. Esso noi sappiamo che è il bene primo e a noi connaturato, e da esso prendiamo inizio per ogni atto di scelta e di rifiuto, e ad esso ci rifacciamo giudicando ogni bene in base alle affezioni assunte come norma. E poiché questo è il bene primo e connaturato, per ciò non tutti i piaceri noi eleggiamo, ma può darsi anche che molti ne tralasciamo, quando ad essi segue incomodo maggiore; e molti dolori consideriamo preferibili ai piaceri quando piacere maggiore ne consegua per aver sopportato a lungo i dolori. Tutti i piaceri dunque, per loro natura a noi congeniali, sono bene, ma non tutti sono da eleggersi; così come tutti i dolori sono male, ma non tutti sono tali da doversi fuggire...
    130 In base al calcolo e alla considerazione degli utili e dei danni bisogna giudicare tutte queste cose. Talora infatti esperimentiamo che il bene è per noi un male, e di converso il male è bene.
    Consideriamo un gran bene l'indipendenza dai desideri, non perché sempre dobbiamo avere solo il poco, ma perché, se non abbiamo il molto, sappiamo accontentarci del poco; profondamente convinti che con maggior dolcezza gode dell'abbondanza chi meno di essa ha bisogno, e che tutto ciò che natura richiede è facilmente procacciabile, ciò che è vano difficile a ottenersi.
    131 I cibi frugali inoltre danno ugual piacere a un vitto sontuoso, una volta che sia tolto del tutto il dolore del bisogno. L'avvezzarsi a un vitto semplice e frugale, mentre da un lato dà la salute, dall'altro rende l'uomo sollecito verso i bisogni della vita, e quando, di tanto in tanto, ci accostiamo a vita sontuosa ci rende meglio disposti nei confronti di essa e intrepidi nei confronti della fortuna.
    Quando dunque diciamo che il piacere è il bene completo e perfetto, non intendiamo i piaceri dei dissoluti o quelli delle crapule, come credono alcuni che ignorano o non condividono o male interpretano la nostra dottrina, ma il non aver dolore nel corpo né turbamento nell'anima.
    132 Poiché non banchetti e feste continue, né il godersi fanciulli e donne, né pesci e tutto quanto offre una lauta mensa dà vita felice, ma saggio calcolo che indaghi le cause di ogni atto di scelta e di rifiuto, che scacci le false opinioni dalle quali nasce quel grande turbamento che prende le anime.
    Di tutte queste cose il principio e il massimo bene è la prudenza; per questo anche più apprezzabile della filosofia è la prudenza, dalla quale provengono tutte le altre virtù, che insegna come non vi può essere vita felice senza che essa sia saggia e bella e giusta, né saggia e bella e giusta senza che sia felice. Le virtù sono infatti connaturate alla vita felice, e questa è inseparabile da esse.
    133 Poiché chi stimi tu migliore di colui che riguardo agli dèi ha opinioni reverenti, e nei confronti della morte è assolutamente intrepido, ed è consapevole di che cosa è il bene secondo natura, ed ha salda conoscenza che il limite dei beni è facilmente raggiungibile e agevole a procacciarsi, il limite estremo dei mali invece o è breve nel tempo o lieve nelle pene? E che quel potere che da parte di alcuni è addotto come sovrano assoluto di tutte le cose proclama ... (t e s t o    l a c u n o s o) delle quali alcune avvengono per necessità altre per caso, altre poi sono in nostro potere, poiché la necessità è irresponsabile, il caso instabile, il nostro arbitrio invece è libero, per cui può subire biasimo o conseguire lode.
    134 Era meglio infatti credere ai miti sugli dèi piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici: quelli infatti suggerivano la speranza di placare gli dèi per mezzo degli onori, questo invece ha implacabile necessità. E riguardo alla fortuna non la stima né una divinità come fa la moltitudine – poiché il dio niente fa che sia privo di ordine e armonia – né un principio causale privo di qualsiasi fondamento di realtà, e non crede che essa dia agli uomini beni e mali che determinino vita felice, ma solo che i princìpi di grandi beni e mali da essa provengano.
    135 Egli reputa infatti meglio essere saggiamente sfortunati che stoltamente fortunati: perché è preferibile che nelle nostre azioni saggio consiglio non sia premiato dalla fortuna, piuttosto che stolto consiglio sia da esso coronato.
    Tutte queste cose e ciò che ad esse è congenere medita giorno e notte in te stesso, e con chi a te è simile, e mai, sia desto che nel sonno, avrai turbamento, ma vivrai invece come un dio fra gli uomini. Poiché non è in niente simile a un mortale un uomo che viva fra beni immortali.
    Epicuro, Lettera a Meneceo, in Opere [trad. di G. Arrighetti], Einaudi, Torino 1967, pp. 61-66.