Come ogni giorno, sul far della sera, attingevi alla tua penna vermiglio piumata per iniziare a tessere il tuo inganno.
Rubando stelle, cucivi con esse l'intrico di una storia che spiavi osservando il mondo dall'alto. Ma lassù, dall'alto, vedevi un mondo sempre più sbiadito, consunto d'odio e di violenze. E a te, che il tuo animo inferocito d'una fantasia ferace si sforzava a farlo più bello con parole di poesia, non appariva che il riflesso del crepuscolo nel nero fondo del sangue, del dolore. Ci volevano occhi migliori – occhi come i tuoi – per osservare quel mondo; ma l'unico libero arbitrio ch'è concesso all'umano è proprio la scelta degli occhi coi quali guardare: il bello era sparito dagli occhi del mondo. I templi crollavano, le statue cedevano cupamente al peso dell'ignoranza e s'accasciavano come splendidi re deposti; le vite si spegnevano, come fiammelle al vento, nel breve spazio d'una frase o d'una corsa in auto verso una meta che non sarebbe arrivata mai; le bombe cadevano fitte come spilli di temporale sopra i bambini assetati e li dissetavano con la ferocia impietosa dell'eternità. E la musica s'era fatta urla di mitra e il vicino guardava con diffidenza, con odio, il vicino. L'amore era divenuto un sentimento remoto: neanche il più lontano ricordo si serbava di esso. La poesia s'era arresa. Ma nonostante il dolore, amavi così tanto la vita da voler scrivere d'essa affinché non se ne perdesse il ricordo; e la rendevi più bella con l'abito di speranza che le avevi cucito di stelle: avevi appreso la più grande scienza del mondo. Eppur moristi in un letto gelato di pioggia e d'inverno con sulle labbra ancora qualcosa da dire, da raccontare; e accanto più nessuno disposto ad ascoltare. Perché l'amore non esiste: lo inventano i poeti; e lo può trovare soltanto chi impara ad amare la poesia. |