Michi. Domenica a Genova Fabrizio è stato ricordato, non ufficialmente (brutta la dimenticanza delle istituzioni locali), da amici ed appassionati riuniti attorno ad un negozio di dischi situato (pensa un po') proprio in Via del Campo.
Mia moglie partecipò con altri amici al suo funerale, e lo ricorda come una delle cose più "trasversali" a cui abbia mai assistito: tutte le età, tutte le classi, le provenienze più lontane, i gruppi sociali più disparati (dall'alta borghesia agli ultimi delle sue ballate), etnie assortite (tra cui indioamericani, gitani, immigrati di ogni sorta), musicisti apparentemente inconciliabili (trallalero genovesi, vocalisti sardi, esponenti del conservatorio e della musica colta, rockers, cantautori, sa Dio cos'altro ancora), gente di teatro e una moltitudine di chissàchi. Fabio. L'aspetto particolare di Fabrizio si collega un po' a quello che raccontava WebMichi: ci si interrogava sulla sua trasversalità, proprio all'interno del forum. Spesso, su alcuni artisti (in particolare De Gregori, Moretti, Bertolucci) sono apparsi interventi di critica connessa anche alla loro dichiarata appartenenza politica. Fabrizio è stato sicuramente molto più schierato dei citati, molto più estremo (non estremista) nelle sue scelte, eppure non mi ricordo un intervento che dicesse, in sintesi, "non mi piace De André perché era anarchico", oppure "è stato sopravvalutato perché di sinistra". Questo può dipendere "semplicemente" dalla qualità delle sue canzoni, oppure è che riusciva veramente a toccare le corde emozionali di molti. O, ancora, che - nella sua accezione teorica - l'idea libertaria può apparire meno intransigente di altre. Antonio. Sulla qualità non si discute; pur in un tema soggettivo, nel caso di Faber siamo quasi a livello di oggettività. Emozioni: quando uno ha una capacita' come la sua di toccare ogni volta un nervo scoperto, l'interlocutore non si puo' sottrarre; è un riflesso condizionato, come il martelletto sul ginocchio; puoi anche dissentire, ma non puoi far finta di non aver sentito, di non aver capito. L'idea: è un attimo cadere dall'idea libertaria a un'idea più "strutturata", con tutto quel che comporta; Faber è riuscito a non farlo. Mai. La bandiera, ammesso che ne avesse una in particolare, non l'ha mai sventolata. Non ha mai dato il sospetto di scrivere per vendere un'idea, anche se l'idea traspariva in bella evidenza, e questo perché quell'idea non avrebbe tollerato di essere venduta. Io sono un ADORATORE del maestrone Guccini; ma quando scrive "Trionfi la giustizia proletaria..." o "...ci giunga ancora un giorno la notizia di una locomotiva, come una cosa viva, lanciata a bomba contro l'ingiustizia..." (dopo l'11 settembre, poi...), scrive bene, ma si mette un passo indietro rispetto a De André: e questo, almeno sul piano di cui stiamo parlando, QUALUNQUE sia il pensiero di ciascuno sul trionfo della giustizia proletaria, della bomba contro l'ingiustizia, ecc. ecc. (si parla della forma, non del contenuto). Insomma, esempio forse ineguagliato di impegno etico e sociale profondissimo (oltre che di capacità di analisi raffinatissima) senza neppure il sospetto dalla propaganda, radicato nell'osservazione dell'uomo e nella condivisione, più che nell'indicazione di strade preconfezionate da percorrere. Anziché lanciare slogan, ha fatto in modo che chi lo ascoltava non potesse, dopo, fare a meno di cercarli, di trovarli e di seguirli IN PROPRIO. In questo, credo coincidessero tanto il suo pensiero sostanziale, che la sua visione dell'arte: come ho detto, non ha mai venduto idee, perché le sue erano idee che non tollerano di essere vendute. Michi. Di solito, da chi partecipa ad un funerale, anche un passante può immaginare qualcosa della vita di chi se ne è andato; la trasversalità che ho citato nell'episodio di mia moglie avrebbe invece indotto alla confusione chiunque, se non si fosse trattato di Faber. Ora, Corvo e Provolino condividono l'affermazione della trasversalità come certificazione della grandezza del personaggio, e si spingono più in là, chiedendosi se questo elemento non sia stato il frutto irripetibile delle idee di Fabrizio e del suo modo di metterle in (grandissima) musica. Dico che è vero, ma solo in parte, perché quando parli di artisti così (per me De André è il più grande nel dopoguerra), non solo all'opera devi riferirti ma anche alla biografia, che spesso spiega quello che gli spartiti e le interviste non fanno. Le cose che ha cantato erano grandi e profonde, ma lui poteva dirle, quando ad altri non sarebbero state perdonate. Dipende dal valore, obietterebbero alcuni; vero, ma posso garantirvi che il suo ambiente originario, la grande borghesia cittadina, ha sempre considerato benevolmente le sue "mattane", che per molti erano il classico dei classici della "jeunesse dorée": la voglia trasgressiva di scendere agli inferi (qui a Genova il centro storico degli ultimi) per offendere i genitori (di solito), per curiosità giovanile verso altri modelli sociali, per fare qualcosa di più divertente o emozionante che in certe famiglie proprio non è possibile. Mediamente, questa fase rientra dopo qualche anno, e molti miei compagni che ho conosciuto nello stesso liceo di Faber, che ho frequentato 15 anni dopo, erano esattamente così: forse erano già vecchi a 18 anni, perché la follia giovanile che avrebbe caratterizzato una piccola parte della loro vita era inevitabile quanto il rientro nei ranghi dopo la maturità: ed è gioventù con il freno a mano, perché non ne hai le prerogative, il rischio e l'incognita. La grande differenza tra Faber e i tanti sta proprio qui: queste "mattane", per lui sono state invece viatico e premessa alla comprensione di mondi e persone che teoricamente gli erano inibiti, diventando maturazione definitiva e codificandosi in una espressione unica, che l'avrebbe accompagnato per tutti gli anni che gli rimanevano. In breve: da un "impunito" come tanti altri (molti a scuola ricordavano i suoi anni giovanili così) al gigante che conosciamo. Attenzione però: la trasversalità di Faber non è spiegabile solo con il suo impareggiabile talento, ma anche con la premessa dei suoi capolavori, culture e comportamenti tutt'altro che popolari (Brassens, la letteratura francese, la musica colta, il radicalismo americano), che hanno poi trovato sbocco in un anarchismo sincero, ma non osteggiato perché individuale e scelto liberamente; il suo ambiente originario non lo ha mai abbandonato, anche perché riconosceva in lui la perpuetazione di tante aspirazioni abbandonate della gioventù di Albaro, Castelletto e Nervi (i posti migliori della città). Altre volte, rispetto ad amici che se ne sono andati dopo un'esistenza "altra", mi sono trovato a funerali dove non capivo se molti presenti piangevano il morto o quello che loro stessi erano stati tanto tempo prima. Chiudo: è più facile rifiutare Guccini, invece (anche se nell'utilizzo della lingua ha fatto alcune cose forse ancora migliori), perché le sue origini e la sua storia ti mandano dritto dritto verso il suo pubblico; perchè forse nei suoi testi non trovi un qualcuno solo che non può farti paura (Piero, Geordie, Marinella, Bocca di Rosa, Andrea, Sally, Michè, Sinàn Capudàn Pascià, 'a Pittima) ma una moltitudine che non può scegliere liberamente e che cerca di diventare storia individuale, e non ce la fa quasi mai (pensate a Van Loon); perchè l'individualismo di Faber (che ha impiegato molti anni a vincere la paura del concerto) è l'opposto di Francesco, affascinato dalle folle a cui lui stesso appartiene, e alle quali non potrebbe rivolgersi con l'idea libertaria di Fabrizio, bella ed elitaria. Ma non per questo è arte minore. Antonio. Molto interessante e (ne convengo) rilevante l'excursus da "insider" del genovese Webmichi; in effetti in questo caso la biografia pure c'entra molto, e quella del Faber, compresa l'altissima borghesia di provenienza, è particolare, anche in relazione alle posizioni prese e ai temi trattati. Del tutto condivisibile anche l'analisi di Michi in relazione a Guccini; neanch'io penso che si tratti di arte "minore", non lo "rifiuto", e anzi ho premesso e ribadisco che sono un suo appassionato da sempre; l'ho scelto come termine di paragone proprio perché lo stimo e lo ritengo obiettivamente meritevole di stima: se così non fosse, il paragone non avrebbe senso. Credo però che tra le righe dello scritto di Michi traspaia anche qualcosa di utile alle mie tesi, e cioè che: - la FORMA di espressione artistica di De André, benché (e forse proprio perché) elitaria, abbia qualcosa di più "assoluto" ed "universale" rispetto a quella di un altro gigante come Guccini, il che (almeno secondo i miei personali criteri di valutazione dell'arte) lo pone quel mezzo gradino più in alto degli altri, tanto più quando l'universalità emerge da un'analisi tanto profonda, sincera e (se del caso) dolorosa del "particulare" (una prostituta di via del Campo, Genova, Italy). - detta forma sia in parte derivante proprio dal contenuto del messaggio, o comunque connaturata ad esso; ciò (anche) in quanto tale messaggio mi pare volto a fornire non già un vademecum per l'azione, bensì gli strumenti e gli stimoli affinché l'ascoltatore proceda per suo conto alla propria analisi e alle conseguenti scelte. Il (o un) grande insegnamento di Faber mi sembra quello di aver il coraggio di fare fino in fondo i conti con la realtà, tutta la realtà, spogliandosi di tutte quelle sovrastrutture che in parte (in gran parte) ci vengono tramandate e/o imposte, ma che in parte (in gran parte) finiscono per farci comodo. L'insegnamento non è solo suo (per qualche verso mi viene in mente, tra i tanti ma non tantissimi, Giorgio Gaber, un altro che venero e rimpiango oltre ogni dire), ma lui ne è stato forse il maestro migliore, più puro, rigoroso e coerente. Sotto questo profilo, torna molto plausibile il vissuto (anche culturale; per inciso, appena sento parlare di Brassens mi commuovo: che mostro, anche lui!) di Faber come l'ha ricostruito Michi: Faber è quello, tra i tanti come lui, che ha superato (e in che modo) il punto di non ritorno della curiosità intellettuale giovanile. Per ora mi fermo qua, e attendo repliche (avrete capito che l'argomento mi sta piuttosto a cuore). Fabio. Quello che mi lascia perplesso (e soddisfatto al tempo stesso) è che non mi capiti di sentire/leggere qualcuno che dica di "non sopportare" De André perché palesemente di parte. Non sono affatto sicuro che quando l'arte raggiunge livelli così alti prevarichi quelli che sono gli schieramenti; l'affinità di pensiero è una (ovviamente non l'unica) delle caratteristiche che ci avvicina a questo o quell'artista, laddove lo stesso artista nelle proprie produzioni dà ampio spazio e spessore a quel pensiero. Andrea.: … Riguardo alla sua "universalità" credo di poter dire che, data la ricchezza e la larghezza del repertorio di Fabrizio de André, ognuno puo trovarci degli elementi che lo rendano piacevole ed eccezionale. Voglio dire che, se non sei d'accordo con il de André politicizzato della Guerra di Piero, puoi apprezzare la Canzone di Marinella o, se ti va di farti due risate, allora ti piace Carlo Martello o ridi del Gorilla. Amalia. Secondo me, la sua è una "trasversalità" assoluta, insita nell'essenza della sua arte. Anche La Buona Novella, pur così particolare come album, o dovrei forse chiamarla "opera"?, è assolutamente trasversale: è per chi crede e per chi si definisce ateo, è rivoluzionaria, ma anche piena di immagini "ortodosse"; viene apprezzata perché può essere vista come un'allegoria di una rivoluzione etico-sociale contro gli abusi del potere in nome dell'uguaglianza di tutti gli uomini (ragazzi, siamo tra il '68 e il '70) e, allo stesso tempo, come una sorta di sacra rappresentazione contemporanea della vita di Gesù, ispirata alla svariatissima letteratura apocrifa. De André è un laico che si accosta con grande rispetto etico e religioso ad un tema forse anomalo per il suo tempo. Probabilmente proprio in questo sta la sua trasversalità: la capacità di coniugare, nei vari personaggi cui dà voce nel suo album, la "rivoluzionarietà" - vale a dire la sua innata tendenza a mettere in discussione tutto ciò che risulta codificato, - con la sua "spiritualità" che gli fa scegliere nel racconto tutto ciò che è più alto umanamente e moralmente. La trasversalità di De André sta anche nella sua idea di religiosità pura, assoluta, che traspira e che lui stesso ci descrive in un suo scritto: "Io mi ritengo religioso e la mia religiosità consiste nel sentirmi parte di un tutto, anello di una catena che comprende tutto il creato e quindi nel rispettare tutti gli elementi, piante e minerali compresi, perché, secondo me, l'equilibrio è dato proprio dal benessere diffuso in ciò che ci circonda. La mia religiosità non arriva a ricercare il principio, che tu voglia chiamarlo creatore, regolatore o caos non fa differenza. Però penso che tutto quello che abbiamo intorno abbia una sua logica e questo è un pensiero al quale mi rivolgo quando sono in difficoltà, magari dandogli i nomi che ho imparato da bambino, forse perché mi manca la fantasia per cercarne altri". Michi. All'origine di questa (bella) discussione, Il Corvo riprende un mio ricordo personale sul funerale di Faber e ne fa lo spunto sui perché della sua trasversalità, vista soprattutto come condivisione dell'arte e della persona da parte di un pubblico larghissimo ed eterogeneo (ed il mio ricordo andava proprio in quel senso), che non ha riconosciuto lo stessa cosa ad altri (e qui Provolino prende palla e introduce un bel confronto con Guccini). Mi correggano i due amici se sbaglio. Ovvero: l'universalità e il valore di una persona e della sua espressione artistica diventano trasversalità solo quando capiti, accettati ed elaborati da chi la fruisce: Faber ha fatto cose uniche, ma universalità dei temi e valore dell'espressione sono stati prerogativa anche di altri artisti, e a loro la "trasversalità" non è riuscita. È davvero solo un problema di "cifra" artistica diversa? Penso di no. Molti degli interventi succeduti ben evidenziano la qualità e la profondità dell'arte di Fabrizio come i due elementi fortissimi che trovano il consenso e la partecipazione dei gruppi sociali più disparati anche in virtù della moralità di cui sono portatori. Vero, però poi l'attenzione deve passare da Faber al suo pubblico, e allora la cosa si fa complessa, perché una parte di questo era la vittima stessa della sua lirica. I tanti motivi positivi della sua trasversalità li conosciamo tutti, è così anche per quelli negativi? Faber assegna la sua poesia ad una persona/emblema, a volte calata in tempi e luoghi diversi e lontani, e spesso non cosciente dell'origine dei suoi guai e di ciò che rappresenta nella società. È lui, grandissimo, che sa chi sono i suoi rapitori, quando loro non lo sanno di se stessi. Ritratti unici, da completarsi con l'intelligenza e l'onestà di chi ascolta, traducendo le valenze senza tempo nel nostro tempo, ma qui la sua grandezza diviene trasversale non solo per ciò che è in sé, ma anche perché alcuni la possono cauterizzare, chi non capendo, chi in malafede. L'ascoltatore di Faber è libero di vedere chi vuole, quello di Guccini e di tanti altri, no: quest'ultimo trova più spesso qualcuno che sa di sé, che esprime nella sua vita l'aspirazione delle "generazioni senza nome" e al suo Cyrano mancano solo i nomi e i cognomi. Imperdonabile, scatta il rifiuto. Una buona parte dell'ambiente originario di Fabrizio, invece, pensa di potere continuare a godere della sua opera senza troppe contraddizioni, recuperando un anarchico romantico ed elegante, non un gruppo scomodo; perché può accettare quelle sventurate di Bocca di Rosa e Jamin-a, ma non Le ragazze della notte di Guccini; splendido l'ubriaco ed il blasfemo di Spoon River, non le taverne di Bologna. E di più: bene i gitani di Anime Salve, ma non parlatemi del campo nomadi nel quartiere! La raffinatezza di Faber diventa ciò che lui non avrebbe voluto: un passaporto per quel pubblico che ama i suoi personaggi, ma non quelli che ti ricordano che li hai sotto casa. Parlo di un poveraccio e mi commuovo, ne vedo tre insieme e chiamo la polizia. ["Chiaccherata" virtuale, su tre città diverse (Genova, Roma, Parma), avvenuta l'11 gennaio 2004] |