Si schermiva: «Benedetto Croce diceva che fino all’età di diciotto anni tutti scrivono poesie. Dai diciotto anni in poi rimangono a scriverle due categorie di persone: i poeti e i cretini. Quindi io, precauzionalmente, preferirei considerarmi un cantautore». Non dategli retta: Fabrizio De André è un poeta. Mi potreste obiettare: anche a prescindere dalla sua dichiarazione d'identità autorale, fatto è che i suoi testi finiscono in canzone, mica se ne stanno asciutti asciutti sulla pagina di un libro. E che vuol dire? Già dai greci antichi sappiamo che mousiké era la poesia cantata e che la lirica d'antan si definisce lirica, appunto, perché la sua recitazione era accompagnata dal suono della lira. E poi, su su nel tempo della poesia: al "suon" di canti e cantici, ballate, madrigali, trobar clus e trobar leu non si arriva forse lì a indicare un matrimonio originario mai del tutto divorziato fra composizione verbale e suono musicale? Semmai, De André, con la sua cura divinamente maniaca per il testo della canzone – suo o di altri, tradotto e/o reinventato – ci ricorda che la poesia (purché sia poesia, purché non sia porcheria) è già musica, perché è già ritmo di suo: a metterla in canzone è solo questione di orecchio. [introduzione]
Circolo Proudhon, 2016 ISBN 978-8899488208 Castel Negrino, Arenzano (GE), 2018 ISBN 978-8899341558 |
ACQUISTA (1a edizione) |
ACQUISTA (2a edizione) |