• È un disco che continua e sviluppa i temi da piccola-grande commedia umana delle canzoni precedenti. Come tema dominante ancora l'amore, di volta in volta cantato nelle sue forme sfuggenti e costanti al tempo stesso: accanto all'amore intenso dell'innamoramento, a quello delle passioni dei sensi, all'amore sfumato nel tempo, compare puntualmente l'amore offerto in vendita dalle graziose o che più tardi diverranno le bambole che bruciano copertoni, a cui De Andrè ha dedicato alcune delle sue canzoni più belle e note, da Via del campo a Bocca di rosa, restituendo in poesia, al di fuori e al di sopra di tutte le indagini sociologiche, il senso antico e lo spessore quasi mitico della prostituzione. Sottilmente vicino a quello dell'amore compare il motivo della morte come confine ultimo ed unica certezza, limite di ogni esistenza che, proprio nel momento in cui viene annullata, acquista un significato che in vita pareva non avere. È la Morte, sembra dire De André, rivelando così di far parte di un filone di pensiero e di sensibilità che dall'antichità classica arriva fino all'esistenzialismo, che dà valore e voce alla vita: un'idea, questa, che troverà la sua realizzazione più completa in Non al denaro, non all'amore né al cielo. Nel brano contenuto in questo disco la morte è cantata con toni che rimandano ancora una volta al Villon del Testamento, là dove dice: "Vedo bene che poveri e ricchi, preti e laici, [...] dame dai colletti svasati, di qualsivoglia ceto o stampo [...] Morte ghermisce senza scampo (Mort saisit sans excepcion)", o ancora il Villon della Ballata in vecchia lingua, il cui refrain rammenta a "imperatori, re, principi e servi", che "tutto così rapisce il vento (Autant en emporte ly vens)".
    Fanno la loro comparsa, con Preghiera in gennaio (un brano ispirato alla tragica vicenda di Luigi Tenco), gli eroi della morte, i suicidi, che hanno visto nel gesto di annientamento la loro costa d'approdo. Un tema, questo del suicidio, caro anche al cantautore canadese Leonard Cohen, che canta la morte "by barbiturate" è "by his own hand" in Who By Fire. E vicino ai suicidi, per la drammaticità della sua morte, sta la figura di Cristo, [...] su cui De André continuerà a riflettere, come sul significato del Nuovo Testamento, fino alla realizzazione de La buona Novella, celandolo dietro l'enigmatico pescatore che "versa il vino e spezza il pane", e tornando su di lui, quasi di sfuggita, in un verso della bellissima traduzione di Suzanne di Cohen, a dimostrare ancora quanto sia vicino il mondo di immagini e di riferimenti dei due cantautori.
    Si ritrova qui anche il rapporto con Jacques Brel e soprattutto con Georges Brassens, poeta e chansonnier tanto affine, di cui De André traduce in questo disco la Marche nuptiale, brano delicato e tenue, in tutto consono all'atmosfera autunnale e sfumata che domina la sua opera fino al 1973, l'anno della Storia di unimpiegato, che segnerà una svolta nella scelta dei ritmi e nell'elaborazione dei testi. Fino ad allora prevale la preferenza per toni musicali attutiti, smorzati, "in minore", che accompagnano una versificazione che riecheggia la ballata di tradizione francese e di lontana provenienza medievale.
    Una costante compositiva già presente nelle prime canzoni e che è possibile ritrovare anche in questa raccolta è la mescolanza continua di alto e basso, di ideale e materia, di anima e corpo: un contrasto di tensioni incarnato in tutti quei personaggi che si dibattono tra l'aspirazione alla purezza, nel senso di realizzazione cosciente di sé e le cadute nell'imperfezione, nel peccato, nell'incomprensione.
    Sono proprio le esperienze estreme eppure banali dell'esistenza i segni che delimitano l'orizzonte tematico dell'opera di De André. Su questi soggetti continuerà a lavorare, scavandoli, cogliendoli nelle loro innumerevoli sfaccetature, nelle infinite forme che prendono nella vita, con una coscienza lucida, scanzonata e partecipe della sofferenza, delle passioni e delle debolezze, della possibilità fragile che abbiamo di creare un senso.
    [Doriano Fasoli, Fabrizio De André. Passaggi di tempo, pp. 103-105]


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    Via del Campo è una straducola stretta e tortuosa nel cuore di Genova vecchia. Appartiene a quella rete di vicoli che, collocata a ridosso dell'angiporto, fa storcere il naso ai Catoni della società bene, ma piace ai poeti. Piace, dunque, a Fabrizio, che già in altra occasione ne ha cantato "l'aria spessa, carica di sale, gonfia di odori", che si sposa al tanfo della spazzatura accumulata lungo i marciapiedi, all'odor di vino e di fumo che esce dalle bettole (poco distante, all'imbocco della via, l'ombra austera di una chiesa e la sede della "Protezione della giovane" sembrano messe lì a bella posta da un folletto in vena di sfottò.

    Qui viene spesso Fabrizio, che è - a suo modo - un poeta e come tale ama scoprire il fondo delle cose, il colore autentico della realtà umana che è fatta anche di miseria, di tristezza, di inutili attese e disattese promesse.

    È sempre stato un tema caro a Fabrizio, quello dell'uomo scrutato - e amato - nei capitoli più amari, nei risvolti fallimentari della sua storia. Che è essenzialmente, per lui, storia di agognati ma tanto spesso irraggiunti traguardi, di fronte alla cui evidenza diventa inutile la speranza illusoria e la ribellione pigmeiformedi chi vorrebbe opporre la propria fragile volontà alla violenza gigantesca del destino. Sempre pronto, quest'ultimo, a dissolvere con un colpo di spugna i poveri fantasmi che colorano i sogni dell'uomo con le luci di un impossibile paradiso.

    Ecco perché non mi ha affatto stupito - alla luce di quanto avevo intuito dalla affettuosa consuetudine con lui uomo e con lui artista - che Fabrizio abbia composto, giunto ad un certo stadio della sua parabola creativa, Via del campo. Che non è soltanto una pagina di amarissima poesia, ma, soprattutto, il ritratto emblematico di una condizione umana, la dimostrazione di quanto possa essere disagevole - oltre che improduttivo - il mestiere di vivere.

    In questa cornice vivono i personaggi di Fabrizio e si consuma la loro attessa, che ha già in sé i germi del proprio nulla. Così la "graziosa" di Via del campo, la "bambina" ai cui piedi nascono i fiori, ma che "vende a tutti la stessa rosa", la "puttana" che non potrà mai offrire altro che un paradiso provvisorio e, tutto sommato, inutile: l'incantesimo di un quarto d'ora. Così il povero "illuso" che viene a cercare, fra il letame, i fiori di un impossibile, assurdo amore. Così, in fondo, tutti noi. E allora?

    Si vorrebbe credere, si vorrebbe sperare. Ma in che cosa, e in chi? Può accadere che nasca nel buio del cuore la tentazione di una preghiera. Ma Dio dov'è?

    "Dio del cielo, se mi vorrai amare, scendi dalle stelle e vienimi a cercare...". Noi non sappiamo individuare il confine che separa il sorriso dal pianto; indicacelo Tu: "le chiavi del cielo non ti voglio rubare / ma un attimo di gioia me lo puoi regalare".

    Ecco allora, finalmente, profilarsi l'ombra di una speranza.

    Fiducia, se non altro, in una giustizia finale che arrivierà ad invertire le posizioni castigando chi troppo ha goduto ("chi bene condusse sua vita male sopporterà la morte"), affrancando chi troppo ha sofferto ("partirvene non fu fatica / perché la morte vi fu amica"). È l'epilogo che il suicida di Preghiera in gennaio sceglie come unica alternativa "all'odio e all'ignoranza" che avvelenano la terra: "Lascia che sia fiorito, Signore, il suo sentiero...". Non c'è altra certezza, non altro rimedio è lecito supporre al nostro male di vivere: "Dio di misericordia il tuo bel paradiso / l'hai fatto soprattutto / per chi non ha sorriso, / per quelli che han vissuto / con la coscienza pura: / l'inferno esiste solo / per chi ne ha paura".

    E prima? Diceva Ungaretti: "La morte si sconta vivendo". Nessuno si salva da questa legge, neppure coloro che Fabrizio chiama "semidei", i fortunati. Come quel Carlo Martello il cui rango regale non vieta ad una qualsiasi sgualdrinella di sottoporlo ad una atroce turlupinatura; neppure coloro che, avendo raggiunto alle spalle degli altri una aleatoria felicità, troveranno il loro castigo quando la morte, "estrema nemica", verrà a rammentare loro "l'infinita vanità del tutto".

    Lungo queste costantila meditazione di Fabrizio nasce e procede con frutti di una concretezza tanto più tangibile quanto più diretto - e sofferto - è il suo approccio con la realtà. E se a taluni troppo ampio potrà sembrare lo spazio che Fabrizio concede ad un pessimismo apparentemente distruttivo, non va dimenticato come esso trovi le proprie radici in un atto d'amore per l'Uomo, di ansia per la sua salvezza.
    [nota di copertina dell'album, di Cesare G. Romana]


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    La prima edizione di questo album [1967] - quella comprendente Caro amore - recava un'introduzione di Giuseppe Tarozzi.

    Definire un cantante è sempre qualcosa di molto difficile, ma lo diventa ancora di più quando questo cantante è Fabrizio De André, un personaggio schivo, al quale male si addicono gli echi mondani, i clamori della prima pagina. Introverso, anche, proprio come ogni ligure che si rispetti, forse diffidente del primo contatto umano e tutto dedito sempre al suo "particulare". Che è, poi, scriversi delle canzoni e cantarle, non importa se in una sala di incisione, o fra le mura di casa sua, per un grande pubblico o per quattro amici. Quello che interessa è cantare, per esprimersi, per conoscere, per trasmettere delle proprie impressioni. Tutto qui. Ogni altra definizione sarebbe aleatoria e arbitraria. È vero che Fabrizio è stato classificato e con qualche giustificazione reale - come "cantante intellettuale", come "il cantante che fa rivivere il menestrello medievale, il troubador provenzale". Ed è sicuramente altrettanto vero che dietro a Fabrizio esistono una solida cultura, delle buone letture, un dialogo coi poeti del passato. Tanto per divertirci in un gioco di elencazioni potremmo fare alcuni nomi: un Villon, certi "poeti di piazza" della Francia prima di Montaigne, oppure i più vicini e più nostri Baudelaire, Verlaine, Rimbaud. Ma tutto ciò è marginale, anche se gioca il suo ruolo nella formazione del mondo creativo di Fabrizio De André. Si prenda, per spiegarci meglio, la canzone Preghiera in gennaio (forse l'esempio limite della gamma di toni di questo cantautore): basterebbe l'inizio, "Lascia che sia fiorito / Signore il suo sentiero", oppure certe immagini come "fate che giunga a Voi con le sue ossa stanche", per capire subito un clima, un entroterra culturale. Per capire che anche il De André - e sia detto senza voler far comparazioni impossibili - si è lasciato tentate dalla "rima fiore amore / la più antica, difficile del mondo". Ma poi c'è la musica, così popolare, così melodicamente cantabile, così da romanza. E questa musica di colto, di intellettuale, di "commercio coi poeti" non ha proprio nulla. E allora si evidenzia l'altro aspetto di De André, un aspetto fatto di attaccamento alle più pure ragioni popolari, veramente, autenticamente popolari della canzone italiana. Di modo che questo ligure introverso, chiuso, schivo, riesce ad aprirsi ad un lirismo immediato, mediterraneo, che può anche essere imparentato (e l'accostamento non sorprende) da un lato con la canzone francese d'oggi - un Brassens - e dall'altro con quella napoletana dell'Ottocento. Ma l'ascolto attento delle canzoni contenute in questo Lp, così diverse fra loro e pure così simili, potrà indicarci altre inclinazioni di gusto e di atteggiamento proprie dei De André. Inclinazioni decadenti, senza dubbio, ma anche di deformazione e di satira, di umori boccacceschi e picareschi (Via del campo, Carlo Martello, Bocca di rosa) che balenano qua e là improvvisi nei versi e nelle inflessioni della voce. Voce che si muta e si plasma ad ogni diversa situazione che via via va cantando e raccontando. Voce che diventa uno strumento, un mezzo non per giustificare il "bel canto", ma per dare colori e toni alla storia, alla favola che in quel momento si racconta. Perché, se è vero che Fabrizio De André nelle sue canzoni si ispira sempre alla realtà, a fatti veri o che potrebbero essere veri, è altrettanto vero che questo non è che il punto di partenza. Quello di arrivo è la favola, il fatto che diventa simbolo. Certo, la cosa ha i suoi rischi, i suoi limiti, che sono poi quelli del bozzetto. Ma quando l'operazione riesce, allora si ottengono bellissime canzoni, come la celeberrima Carlo Martello, o la recentissima Bocca di rosa che "metteva l'amore sopra ogni cosa", canzone che ha il sapore della ballata popolare con quel suo andamento, allegro e gioioso, a saltarello. Di quando in quando l'inchiostro del De André diventa triste e amaro, quasi cattivo. È il caso di Marcia nuziale, una canzone che ha il sapore di una disperata malinconia, come di una rivincita andata a vuoto, di una sfida persa, con il ragazzo già grande che assiste alle nozze dei suoi genitori, accompagnandole suonando "con la gola tesa" l'armonica "come un organo da chiesa". Oppure la ballata sulla morte, vista come "l'estrema nemica", una nemica che "non serve colpirla nel cuore / perché la morte mai non muore". Gli esempi potrebbero continuare, ma questi possono bastare. E poiché la chiacchierata rischia di diventare troppo lunga bisognerà cercare una plausibile conclusione, come questa che tentiamo: in fondo ad ogni canzone del De André c'è sempre l'uomo. L'uomo con le sue miserie e le sue gioie, le sue poche vittorie e le sue molte sconfitte e, soprattutto, col suo inesauribile bisogno di amore e di speranza.