Parla della morte... Non della morte cicca, ma di quella psicologica, morale, mentale, che un uomo normale può incontrare durante la sua vita. Direi che una persona comune, ciascuno di noi forse, mentre vive si imbatte diverse volte in questo genere, in questo tipo di morte, in questi vari tipi, anzi, di morte. Così, quando tu perdi un lavoro, quando perdi un amico, muori un po'; tant'è vero che devi un po' rinascere, dopo.
[intervista rilasciata alla Rai nel 1969. Ora nel video (curato da V. Mollica) allegato a Fabrizio De André. Parole e canzoni, Einaudi, Torino 1999] Il tema-base di Tutti morimmo a stento, che è il primo album-concept che io abbia fatto era quello dell'emarginazione, i singoli personaggi sono degli emarginati. [in Doriano Fasoli, Fabrizio De André. Passaggi di tempo, p. 72] È polveroso, è cattedratico, è barocco. E ricordiamoci che in quel periodo, sotto il barocco, c'era la controriforma. Quindi è un disco che, pur nel suo tentativo di mettere in mostra alcuni dei vizi più notevoli della società, ha tuttavia un modo di esprimersi e anche di accompagnare lo scritto con la musica un po' arrogante, un po' ridondante. È un disco che, direi, risente quasi di autoritarismo in qualche maniera, ma è proprio barocco in tal senso. [in Doriano Fasoli, Fabrizio De André. Passaggi di tempo, p. 40] Aveva un sottotitolo, anch'esso un po' pomposo: Cantata in Si Minore per solo Coro e Orchestra. Io ho parlato di barocco, nel senso che ho fatto poca attenzione... l'ho scritto col cuore, capisci, e quando si scrive col cuore si è poco logici, si finisce col ridondare, col fare prediche da pulpito. C'è anche il pericolo che questa processione di vittime, cantate in modo così retorico, finisca per fare ribrezzo. Comunque il disco è molto spontaneo, e io avevo solo ventisei anni. Poi si cresce, e il cinismo, malgrado tutto, prende quota, e allora ti trovi a pensare: "Ma guarda un po' questo fessacchiotto di un ragazzino che pensava di poter scrivere col cuore in mano". [in Cantico per i diversi, intervista a cura di Roberto Cappelli, Mucchio Selvaggio, settembre 1992] Nel primo dopoguerra sorse a Genova, nel quartiere della Foce, una singolare istituzione. Alcuni ragazzi del rione decisero di creare un'opera assistenziale a favore dei gatti randagi. Li raccoglievano per le strade e li ricoveravano, volenti o nolenti, fra le macerie di una casa bombardata. Mettendo a saccheggio le dispense materne, rifornivano i loro ospiti di ogni ben di Dio, e ben presto, fra le facerie dell'improvvisato asilo, sorse la più florida comunità di gatti che mai sia esistita. Capo dell'istituzione era Fabrizio, che a quell'epoca ottenne presso i gatti genovesi la stessa incondizionata ammirazione che oggi gli viene tributata dai "patiti" delle sue canzoni. L'accostamento è legittimo, anche perché enucleando un aspetto della personalità di Fabrizio uomo, chiarisce molte cose sul Fabrizio poeta. I gatti randagi di ieri cantano ancora nelle sue canzoni, popolate di creature sconfitte, lasciate ai margini della società ed alle quali egli vuol riconoscere, anche polemicamente, come agli animali affamati della sua infanzia, quella dignità umana negata loro dalla gente per bene. È affollato, il suo mondo poetico, di gatti che hanno fame (di pane, di pietà, di amore): da Miche' a Bocca di rosa,, alla fauna de La città vecchia o di Via del campo, ai negri di Spiritual che continuano ad attendere che Dio si accorga di loro, al suicida di Preghiera in gennaio, ai protagonisti de La ballata dell'eroe, La guerra di Piero, La ballata dell'amore cieco. C'è bisogno di tanta pietà, per i gatti randagi come per gli uomini, vuol dirci Fabrizio. E per dircelo ha raccolto tutte le folgorazioni, le angosce, i tremori delle sue canzoni precedenti, per scrivere questa cantata che è anche - e soprattutto - una galleria di personaggi, un vasto mosaico sulla solitudine e sull'infelicità dell'uomo. Ancora una volta Fabrizio ha dato la parola ai gatti randagi, perché la gente capisca e tragga le debite conseguenze. Ecco perché Tutti morimmo a stento è un messaggio di disperato amore, per tutti i diseredati cui una specie di morte morale impedisce di recuperare il perduto gusto della vita. E proprio la morte (come negazione della vita, ossia della dignità, della felicità, di tutto quanto gli antichi comprendevano nel termine "humanita") fornisce il fondale inquietante di questa cantata, un polittico che allinea tutto il triste campionario di un'umanità derelitta: tossicomani, impiccati, bimbi impazziti negli agghiaccianti "juex interdits" di una guerra apocalittica, adolescenti traviate, falsi babbi Natale che cercano nell'amore di fanciulle ancora pure il brivido dimenticato della gioventù. Su tutti aleggia, nel dolente racconto dell'autore, la consapevolezza del proprio peccato e dell'impossibilità a riscattarsene, l'avidità di luce e di quiete cui fa riscontro la condanna all'ombra e al tormento. Così nel canto del drogato ("chi / e perché mi ha messo al mondo / dove vivo la mia morte / con un anticipo tremendo?") che nell'euforia illusoria dell'allucinogeno cerca invano l'antidoto al proprio vuoto interiore: "Ho licenziato Dio / gettat via un amore / per costruirmi il vuoto / nell'anima e nel cuore...", e poi: "Gli arcobaleni d'altri mondi / hanno colori che non so / lungo i ruscelli d'altri mondi / nascono fiori che non ho", impossibile speranza in una felicità che stia "oltre il confine stabilito", oltre la coscienza umana, oltre "ai bordi dell'infinito". Così ancora nella amara Leggenda di Natale, la storia del vecchio riccone che abusa dell'innocenza di una fanciulla per allontanare da sé lo spettro incombente della vecchiaia: "E venne l'inverno che uccide il colore / e un babbo Natale che parlava d'amore / e d'oro e d'argento splendevano i doni / ma gli occhi eran freddi e non erano buoni... / E mentre incantata lo stavi a guardare / dai piedi ai capelli ti volle baciare". Un mondo, insomma, che ripugna alla fredda e asettica morale di chi giudica prima di comprendere e di compatire (ed è la morale dei più) ma sul quale si china pietoso Fabrizio. E a differenza della morale dei più, la sua morale è sempre giustificatrice, mai giustiziera. Per lui tutti hanno diritto a salvarsi, "perché non c'è l'inferno / nel mondo del buon Dio". Ma come salvarsi, se ogni rivalsa sulla naturale caducità delle cose e dei sentimenti finisce per rivelarsi impossibile? È vero che alla solitudine può anche seguire l'amore, che all'inverno finisce per sostituirsi la primavera ("Ma tu che vai, ma tu rimani / anche la neve morirà domani / l'amore ancora ci passerà vicino / nella stagione del biancospino"); ma altri inverni sopraggiungeranno, anche l'amore finirà: "Ma tu che stai, perché rimani? / Un altro inverno tornerà domani / cadrà altra neve a consolare i campi / cadrà altra neve sui camposanti". Insomma, è la mancanza di pietà che trasforma la nostra vita in un lungo cammino di morte. Il tema affiora nella Ballata degli impiccati,, ai quali non è stata concessa possibilità di redimersi, per i quali "il prezzo fu la vita / per il male fatto in un'ora"; o nel Marcondiro'ndero, una delle pagine più intense e drammatiche dell'intera cantata. Vi si narra come la spietata (appunto) follia dell'uomo abbia scatenato la guerra atomica, e di come la terra ne sia andata distrutta. Solo i bimbi sono rimasti vivi, a continuare un assurdo girotondo che li trascina, gradualmente, alla pazzia. E su tutto aleggia un terribile monito, "chi ci salverà?". Dunque, vuole dirci l'autore, non c'è speranza nell'uomo, se non nell'amore che uccide l'odio, nella carità che uccide cupidigie, e rancori, e ingiustizie. Abbiano pietà coloro che stanno in alto, che hanno gloria, potenza e ricchezza. Abbiano pietà di chi conosce il dolore e di chi conosce l'errore, affinché per tutti - se lo vorranno - si apra la strada del riscatto. I potenti, rammentino che la felicità non nasce dalla ricchezza né dal potere, ma dal piacere di donare. E che la morte è rimorso, per chi non ha saputo aprirsi, in vita, alla compassione. Per chi non ha saputo amare i gatti randagi. [dalla nota di copertina dell'album, di Cesare G. Romana] C'è quasi un disegno architettonico sotteso a questo disco in cui i brani si susseguono senza pause di silenzio, scanditi dagli Intermezzi, in un crescendo che trova il suo punto più alto nel Recitativo e si scioglie poi nel coro finale, come accade anche in La buona novella. All'interno di questo progetto musicale, De André canta il lato oscuro della coscienza, il luogo in ombra di noi dove risiedono la fragilità morale, l'incapacità di adattarsi alle regole, l'anelito alla ricerca di altro e di oltre, che spesso si risolve nella dissipazione e nella perdita di sé. Canta gli eroi al contrario, segnati da un disadattamento interiore che ne fa dei dissidenti verso se stessi e il mondo. Drogati, prostitute, criminali condannati dalla giustizia terrena, nel momento in cui raccontano e riconoscono la propria colpevolezza, non hanno l'effetto di confermare l'ordine del mondo, ma di confonderlo, mirando alla base il principio manicheo che vorrebbe la contrapposizione netta di bene e di male, bianco e nero, mentre la vita, alla luce dell'esperienza, appare un doloroso intreccio di grigi, di fatti, azioni e scelte ingiudicabili una volta per tutte. [...] Tutti morimmo a stento, nel suo insieme, è una specie di testamento, una forma tanto cara a Villon e più volte ripresa da De André; è un viaggio attraverso i gironi del purgatorio della coscienza, della natura, dell'umanità intera, alla cui fine tutti i temi confluiscono in una corale invocazione alla pietà, con toni che, se tendono un po' al moralismo, fanno però anche rivivere, dopo cinquecento anni, la forza dei versi villoniani: "Uomini, qui non v'ha scherno né doglia / pregate Iddio che assolvere ci voglia". [Doriano Fasoli, Fabrizio De André. Passaggi di tempo, pp. 117-119] |