Il '68 io l'ho vissuto a contatto con questi gruppi di estrema sinistra, partecipando al tentativo di rinnovamento; non li ho seguiti, perché di solito un artista, indipendentemente dall'ideologia, è un coniglio individualista. Mai avrei fatto la lotta armata, ma condividevo quasi tutti quelli che oggi vengono definiti gli eccessi sessantottini, anche perché li avevo quasi promossi, attraverso le mie canzoni. Se alle manifestazioni un autonomo sgangherato iniziava a tirare pistolettate, questo non lo condividevo sicuramente, ma condividevo la rivolta contro un certo modo di gestire la società che non teneva minimamente conto della società stessa. Volevamo diminuire la distanza tra il potere e la società. Abbiamo ottenuto diverse vittorie: pensa solo alla liberazione sessuale, frutto del '68, purtroppo frustrata dalla paura dell'Aids, o alla libertà d'informazione, che allora non esisteva realmente. Certo, ho anche fatto concerti in mezzo a bombe molotov e lacrimogeni.
Ma il '68 è stato una rivolta spontanea, e il fatto che non sia riuscita forse è un bene, se è vero che il grosso problema di ogni rivoluzione è che, una volta preso il potere, i rivoluzionari cessano di essere tali per diventare amministratori. Eh sì, questo non è venuto molto bene (a proposito di Storia di un impiegato,ndc). A questo punto si era capito che le persone deluse dal fatto che la rivolta era fallita, che non era diventata una rivoluzione vera, che non era cambiato nulla, fuoriuscite dai partiti che avrebbero dovuto rappresentare la sinistra, si erano armate. Il che equivaleva a dire allo Stato, levati da questa poltrona che mi ci voglio sedere io, che è poi quello che ho cercato di dire ne La canzone del padre. Il terrorismo è stata la vera esagerazione: il '68 che ho vissuto io era un'epoca ricca di fantasia, e ha fatto del bene. Le BR no, se avessero vinto loro oggi staremmo peggio. [in Cantico per i diversi, intervista a cura di Roberto Cappelli, Mucchio Selvaggio, settembre 1992] Un impiegato ascolta, 5 anni dopo, una delle canzoni del maggio francese 1968. È una canzone di lotta: ricorda gli avvenimenti accaduti durante la rivolta nata dagli studenti e, rivolgendosi a quelli che alla lotta non hanno partecipato, li accusa e ricorda loro che chiunque, anche chi, in quelle giornate, si è chiuso in casa per paura, è ugualmente coinvolto negli avvenimenti. La canzone contiene l'affermazione che la rivolta non è finita ma ci sarà nuovamente, in futuro, più forte. L'impiegato paragona la sua vita fatta di buonsenso, individualismo e paure, a quella dei ragazzi che hanno voluto ribellarsi al sistema che li opprimeva. Si rende conto, o così presume di sé, di non potersi unire a loro, di non poterli seguire né affiancarsi in alcun modo. La realtà nella quale vive lo ha condizionato, lo ha segnato irrimediabilmente. C'è solo posto per la vendetta e la presunzione di potercela fare da solo, di risolvere con un gesto solitario tutti i problemi che lo incatenano al posto di lavoro. Decide così di gettare una bomba ad un ballo mascherato al quale partecipano tutti i miti, i valori della cultura e del potere borghese. E comincia a sognare. Sogna di autoinvitarsi al ballo mascherato e di portare con sé la bomba, gettarla ed assistere agli effetti dello scoppio su coloro che per anni ha rispettato, gli hanno imposto un comportamento. La sua liberazione è totale, alla fine; dopo aver assistito all'agonia di tutti, e del padre e della madre, si libera anche dell'amico che gli ha insegnato a ribellarsi rendendo così all'individualismo, di cui è vittima, il tributo definitivo. Il sogno prosegue: la voce di un giudice lo informa che il potere borghese era al corrente dei suoi atti, addirittura lo stava seguendo dalla nascita così come seguetutti i suoi sudditi. L'accusa di omicidio, di strage, si trasforma in ringraziamento per aver eliminato vecchi residui che davano fastidio al potere stesso, che ormai ha trovato altri modi per governare. Il giudice lo informa che ha usato correttamente gli strumenti della legge e che il suo gesto non è altro che la ricerca del potere personale. Così lo accolgono tra coloro che contano, tra coloro che decidono, tra coloro che governano e dispongono della altrui e della propria libertà. Un nuovo sogno, o una nuova puntata dei sogni precedenti, e l'impiegato prende il posto del padre da lui stesso sacrificato alla ricerca di uno spazio personale. Rivive una vita lancinante, fatta di illusioni e di relative delusioni, di difese disperate della propria integrità, del proprio denaro, delle proprietà, non è più un sogno, ma un incubo e l'impiegato si sveglia. Ha capito che in qualunque modo è un uomo finito, senza nessuna possibilità di recupero, che i suoi gesti saranno sempre individualisti, tesi al proprio bisogno personale e che salendo la scala del potere non si sfugge comunque alla propria condizione di isolamento, d'angoscia. La bomba che nel sogno era stata gettata con forza, con rabbia, per vendetta, ora, nella realtà, diventa un momento di ebbrezza e, ovviamente, di lucidità. L'impiegato sa cosa fare, sa dove andare, sa chi deve colpire e perché. Va dritto al parlamento a gettare una bomba vera per ammazzare gente vera, ma la sua abilità era soltanto un sogno: la bomba rotola giù verso un'edicola di giornali e l'unica cosa che colpisce è, come una previsione, la faccia della sua fidanzata che sta su tutte le pagine dei giornali. E alla fidanzata del mostro, l'impiegato scrive una lettera dal carcere nel quale è rinchiuso. Nel carcere, in una realtànon più individualista, ma forse il massimo dell'essere uguali, l'impiegato non più impiegato scopre un nuovo modo di capire la vita e le cose che lo circondano. Scopre la realtà della parola "collettivo" e della parola "potere". Per la prima volta in bocca al personaggio e per la seconda nel disco, l'io passa al noi mentre si prepara una nuova rivolta o sta continuando la stessa della canzone di maggio. La nota più interessante che se ne ricava è la contrapposizione fra due diverse realtà: quella nella quale si muove l'impiegato preso a simbolo della classe borghese media che, in cambio del rispetto delle regole imposte da chi ha in mano le leve del comando, gode dei suoi stessi privilegi, e la realtà del carcere, diventata qui, saltandone a piè pari le implicazioni di degradazione di cui tutti siamo a conoscenza, il simbolo dell'oppressione e anche dell'uguaglianza. La scelta del carcere (da parte di De André e Bentivoglio) è ovviamente formale, qi fini del racconto, e viene usata come pretesto per indicare una situazione di collettività. Queste due situazioni hanno un punto in comune: sono due condizioni ideali di costrizione ma la prima necessità, per la liberazione, della legge della jungla, l'individualismo, la lotta personale, la necessità di imparare delle regole non scritte, dei codici di comportamento che sono appannaggio di coloro che si dividono la torta del potere. Ed il risultato, questa liberazione, può essere soltanto una posizione personale più prestigiosa, un salto di piano, una crescita obbligata all'interno di quelle regole: perciò da oppresso a oppressore. Poiché è contenuta nella stessa logica del potere la possibilità che qualcuno ne possa avere altrettanto o di più, non c'è vero conflitto, sempre che le regole siano rispettate. Per grandi gruppi economici non importa il nome di chi governa se il nome è il prestanome di un sistema di governare. Così non importa se l'impiegato prende il posto di uno che ha in mano qualche piccola leva di comando, basta che rispetti le regole del gioco (Nel disco è il posto del padre, usato da De André e Bentivoglio come esempio della conservazione di classe). Anzi, ben venga un rinnovamento, sangue giovane e vitale, per consolidare quella realtà che servirà ad istruire, condizionare, preparare altra gente e altro sangue a sostituirsi ai vecchi migliorando ma non cambiando il decalogo della classe dominante. In carcere la realtà concede invece due alternative. Ovvero, in condizioni di sfruttamento sopra una intera collettività ci sono due modi di liberarsi: uno individuale, ma bisogna abbandonare la classe alla quale si appartiene per entrare nell'altra, quella già descritta; l'altro è quello di farlo collettivamente. Ed è proprio in una realtà collettiva che si impara un altro modo di agire, di pensare, di gestire la propria persona tenendo conto della presenza degli altri, facendosi un tutto con gli altri fino a cambiare l'io col noi, ripetendo la stessa posizione di lotta ma questa volta con la coscienza di appartenere alla stessa classe di sfruttati. Un'altra nota del disco è la scelta del linguaggio che gli autori hanno usato per esprimersi. Un linguaggio moderno, staccato decisamente dalla forma di racconto per approdare a delle immagini di tipo psicologico fino a delle immagini oniriche di stampo reichiano, espresso mescolando elementi reali e irreali sulla stessa costruzione del verbo. De André e Bentivoglio hanno differenziato con particolare cura il linguaggio della canzone del carcere e della traduzione della canzone del maggio in rapporto a quelle delle altre canzoni del disco. De André e Piovani hanno composto le musiche riuscendo a fondere lo spirito della ballata tradizionale con momenti di musica rappresentativa, dando al disco varie espressioni mimiche: dalla rabbia alla nostalgia, dalla tenerezza alla smorfia sadica. Gli arrangiamenti dello stesso Piovani accentuano ancora di più le sezioni del disco portando ad ognuna il contributo di comunicazione e legandole una ad una in una storia essenziale. L'interpretazione di Fabrizio De André passa dalla canzone di piazza del maggio alla forma recitata del sogno numero due, dal tenero cinisco della canzone d'amore alla rabbia della canzone del carcere, con disinvoltura, in un disco in cui De André cantante è sempre meno cantante e sempre più interprete abile e misurato, e con la consueta aggressività e presenza si impone al suo e al nuovo pubblico mantenendo intatta la coerenza del primo lontano disco del 1960. [dalla nota di copertina dell'album, di Roberto Danè] "La pietà si appoggia / al suo bombardamento preferito / e perdona la bomba". Con queste parole di Gregory Corso, il poeta statunitense che nel 1960 aveva provocatoriamente scritto una poesia d'amore alla bomba atomica "incalzatrice della storia / freno del tempo Tu Bomba / giocattolo dell'Universo", De André suggella la Storia di un impiegato, perché sia chiara, sin dall'inizio, la contraddizione implicita in ogni sovvertimento che, il più delle volte, non porta ad una società nuova, ma alla sostituzione di un potere ad un altro. E quella che doveva essere una riflessione sul Sessantotto, sulla possibilità di cambiare la realtà, di ridisegnarne i luoghi, diventa anche una lucida previsione di quello che sarebbe stato lo scenario politico italiano negli anni Settanta, durante i quali il terrorismo isolato avrebbe rafforzato il potere delle istituzioni che, intanto, "perdonavano" le bombe, mentre spariva dietro l'orizzonte la prospettiva del cambiamento. È ancora Roberto Danè che introduce questo album con uno scritto in cui vengono ripercorse le tappe principali della riflessione sul Sessantotto - cinque anni dopo il Maggio - sul potere, la libertà, l'uguaglianza e, dietro a tutto questo, sul lavoro poetico e musicale che ha accompagnato il disco. Anche dal punto di vista poetico, dell'elaborazione dei testi, la citazione di Gregory Corso appare significativa, come riferimento a quella parte della letteratura americana degli anni Sessanta a cui appartengono Ginsberg, Ferlinghetti, Burroughs, con la loro ricerca di un linguaggio ulteriore, che dia parola ad aree ormai allargate di coscienza, che coniughi in una dimensione nuova la realtà, il sogno, il viaggio mentale con le sue esperienze estreme, sfuggite ormai alle forme consuete della narrazione. Per questo Danè insiste, nell'introduzione, sull'importanza della scelta del linguaggio in questo disco: "Un linguaggio moderno, staccato decisamente dalla forma di racconto per approdare a delle immagini di tipo psicologico fino a delle immagini oniriche di stampo reichiano", e ancora: "De André e Bentivoglio hanno differenziato con particolare cura il linguaggio della canzone del carcere e della traduzione della canzone del Maggio in rapporto a quello delle altre canzoni del disco". Ed infatti la i>Canzone del Maggio, liberamente tratta da un canto del Sessantotto francese, e Nella mia ora di libertà sono le più narrative di tutto il volume, distese sia dal punto di vista della versificazione che da quello della melodia, forse perché trattano di due momenti di consapevolezza, mentre lo svolgimento della vicenda, con i suoi dubbi, le resistenze, le scelte e le rivelazioni traumatiche, le contraddizioni che "esplodono, è affidato a canzoni dal ritmo sincopato, ad un linguaggio involuto carico di metafore continue ed ossessive (Al ballo mascherato, Il bombarolo). Nella Canzone del padre De André riesce a raccontare alcuni stati di coscienza molto intensi e nascosti, attraverso una immersione nelle regioni del sogno, non a caso accompagnata da un cullante ritmo in sei ottavi, e in Verranno a chiederti del nostro amore il nuovo rapporto fra testo e musica, riscontrbile in tutto il disco, raggiunge un grado di equilibrio molto altro, che acquisterà tanto più fascino e spessore nel 1979, con gli arrangiamenti della PFM. [Doriano Fasoli, Fabrizio De André. Passaggi di tempo, pp. 175-176] |