Nel 1969 scrivevo La buona novella. Eravamo in piena rivolta studentesca; i miei amici, i miei compagni, i miei coetanei hanno pensato che quello fosse un disco anacronistico. Mi dicevano: cosa stai a raccontare della predicazione di Cristo, che noi stiamo sbattendoci perché non ci buttino il libretto nelle gambe con scritto sopra sedici; noi facciamo a botte per cercare di difenderci dall'autoritarismo del potere, dagli abusi, dai soprusi.
Non avevano capito - almeno la parte meno attenta di loro, la maggioranza - che La buona novella è un'allegoria. Paragonavo le istanze migliori e più ragionevoli del movimento sessantottino, cui io stesso ho partecipato, con quelle, molto più vaste spiritualmente, di un uomo di 1968 anni prima, che proprio per contrastare gli abusi del potere, i soprusi dell'autorità si era fatto inchiodare su una croce, in nome di una fratellanza e di un egualitarismo universali. Come traccia ho seguito gli evangelisti apocrifi. La chiesa, un tempo, non gradiva che persone di confessione non cristiana scrivessero di Gesù di Nazareth; invece scrittori e pensatori bizantini, arabi, armeni, greci hanno avuto sempre nei confronti di Gesù un enorme rispetto. Ancora oggi il mondo musulmano lo considera il più grande profeta dopo Maometto, mentre il mondo cattolico considera Maometto poco più che un ciarlatano. E questo è un punto a favore dell'Islam; inoltre tra i cinque pilastri che reggono l'Islam non esiste la jihad, la guerra santa: quella viene dopo le crociate. [...] [presentando alcuni brani de La buona novella durante il tour del 1997] L'aggettivo "apocrifo", in greco, significa "segreto", "nascosto". Sembra che stesse ad indicare, fino al IV secolo a.C., alcuni scritti che qualche setta cristiana metteva a disposizione solo degli iniziati, non ritenendo che gli scritti fossero di facile comprensione per le masse. Quando la Chiesa cominciò a distinguere in "ispirata e no" la letteratura su Cristo, escluse quei testi apocrifi dal codice "canonico". Per estensione vennero chiamati apocrifi tutti gli scritti esclusi dal codice, appartenessero o meno a quelle sette. Così apocrifo divenne sinonimo di "non veritiero", "falso", "non corretto". Ci sono vangeli, bibbia, atti e lettere, sentenze e apocalissi apocrifi. I vangeli apocrifi, in genere, vengono datati tra il I e il IV secolo d.C. Convenzionalmente portano il nome di apostoli o testimoni della vita di Cristo: Pietro, Nicodemo, Filippo, Giacomo, Tommaso, i quali parlano in prima persona o sono citati dal redattore del testo come fonte del racconto. Gli apocrifi sembrano colmare il vuoto dei quattro canonici (Marco, Matteo, Luca, Giovanni) sull'infanzia di Maria, la storia di Giuseppe, l'infanzia di Gesù e la storia di Erode e Pilato. Ma la differenza più affascinante è l'attenzione che gli autori mettono anche sulla natura "comunque" umana dei loro protagonisti; costoro, e il popolo che vive con loro, sembrano semidei di vario grado immersi in una meravigliosa e a volte anche troppo fantastica leggenda, costretti a viverla come umili e martoriati esseri umani in balia di questa unica commedia umana. Pur essendo fuori della Chiesa, gli apocrifi hanno lasciato una traccia ben profonda: dalle più piccole e radicate tradizioni (la grotta, l'asino e il bue, il nome dei Magi e dei genitori di Maria) fino alle basi sulle quali poggia il dogma dell'Assunzione e la definizione di "Madre di Dio". Queste e altre notizie hanno ricchezza di particolari e spesso unica citazione nei vangeli apocrifi. La loro storia è sotterranea. I "fedeli" cristiani non li conoscono, la Chiesa non li divulga, per secoli sono stati ignorati eppure Dante, Carpaccio, Tiziano, Michelangelo, Raffaello, Hugo, Bulgakov devono averli letti se hanno raccontato o dipinto scene che solo gli apocrifi contengono. Il lavoro di questo disco nasce da una ricerca sui Vangeli Apocrifi e sull'animo umano che li ha informati: nasce dalla necessità di divulgare e comunicare e dalla convinzione che l'argomento è lungi dall'essere superato: semmai oggi l'interesse si sposta, finalmente, dallo studioso alla gente, attraverso l'unico tramite ancora possibile, l'artista. Fabrizio De André comincia il suo mestiere di autore con le canzoni di protesta, La guerra di Piero, La ballata dell'eroe e con stupende canzoni d'amore, Bocca di rosa, Via del campo, Marinella. La storia spesso fa da supporto, da pretesto per la polemica, per la satira, per l'umorismo su questo nostro "scostumato" mondo. Tra un verso e l'altro filtra l'ironia dell'uomo che ha bisogno di fede e fede non ha trovato. Il problema più che religioso è mistico e, fattosi primo tra gli altri, comincia a cadenzare una sfiducia in tutto ciò che è mito ma non risolve, che è autorità ma non opera, che è volontà ma non vuole altri che se stessa. L'ironia qualche volta prende la piega acre del sarcasmo, la sfiducia scende di classe, corrode anche gli oppressi fino alla passività che è suicidio, e De André scrive Tutti morimmo a stento, cantata sulla morte ma anche per la morte, certa, sicura, e tanto più amara se il vivere non è stato. Tutti morimmo a stento è un quieto dolore che finisce male, della rivolta non ci sono neppure più le radici, rimangono due invocazioni e un atto di accusa che sembrerà una preghiera. Solo la morte ha ragioni per vivere: ha la coscienza di essere stata chiamata. La buona novella è il grado più alto di questa illusione-disillusione-sfiducia. Ne è l'emblema, addirittura. Comincia con una favola, una leggenda: un "c'era una volta" che fa presagire lieto fine e felicità. Contiene l'identico carattere di anomalia delle favole: cominciano con momenti tristi e penosi, con angosce e fatiche, lo svolgimento rasenta il tragico, l'irreparabile, poi sfociano brutalmente (come quando arrivano i nostri) in un lieto fine liberatorio. Sono forse i timori, le paure dell'adolescenza che svaniscono nell'accettazione, con la maturità, di affetti concreti, reali e semplici. Il raro e lo straordinario sono sempre di passaggio. E De André segue questo itinerario: alla favole sembra crederci, la porta avanti come se dovesse concludersi con il lieto fine, termina persino il primo tempo con l'odore della felicità. E poi distrugge con forza e decisione tutto ciò che ha costruito e lo distrugge senza giustificazioni di destini o di predestinazioni: con la convinzione che l'ineluttabile morte deve accadere, comunque, anche per errore. Sembra allora che la costruzione della prima parte sia stata fatta apposta per essere abbattuta: più dolce, femmina e leggenda, per frustrare definitivamente con la realtà dura e maschile ogni capacità di speranza. Non importa che la storia dei vangeli gli fosse ovviamente nota. Alla sua storia "evangelica" manca il riferimento biblico "affinché si compisse quel che è stato predetto". De André usa perciò la stessa meraviglia del narratore originale, l'incredibile lo allarga, lo riempie di possibile, lo umanizza come fosse credibile, fino al tentativo di corruzione dell'ascoltatore perché gioisca con lui: questa volta ce l'abbiamo fatta, i fatti cambiano il mondo! E poi lo dileggia perché ha creduto ancora una volta alla favola illusoria. Resta a consolare quell'amore dell'ultimo verso del testamento di Tito: unico comandamento, ama il prossimo tuo, che comandamento non è. Parallelamente a questa sfiducia esistenziale (anche l'unico che poteva essere Dio è morto) c'è ben chiara quella propriamente politica. Ed è ancora la stessa strada della frustrazione. Così una bambina prima ancora di capire, prima ancora di volere, è già strumento della fede dei genitori e naturalmente del potere che quella fede esercita. E viene allevata nel seno del potere per servire il potere. E proprio dalla vergine per vocazione (sterile, perciò) nasce la rivolta. La gioia è breve, il potere riprende le redini in mano, la rivolta è soffocata, il potere uccide. L'altalena vichiana del finale toglie, senza molte cortesie e senza tanto favoleggiare, le illusioni a diciannove secoli di storia. La storia finisce con la morte perché la morte è la fine della realtà. La resurrezione sarebbe ancora leggenda e ancora una volta toglierebbe forza alla possibilità di imitare quest'uomo che De André considera il più importante rivoluzionario della storia. Il legame con i Vangeli Apocrifi è allo stesso tempo profondo e tenue. Direi che De André li usa finché gli sono utili, ne adopera alcuni strumenti, sono l afonte necessaria per un lavoro così complesso. L'infanzia di Maria ha dei precisi riferimenti storici e così il viaggio di Giuseppe e l'annunciazione dell'angelo e la parte nota della passione, ma al personaggio Giuseppe, per esempio, De André ha dato un'anima che negli apocrifi non ha. Gli autori di duemila anni fa lo dicono servitore di un'idea, ma non dicono che cosa lui ne pensasse. E così i turbamenti di Maria, le parole delle tre madri, i gruppi della via crucis (che come fonte è apocrifa e non esiste nei canonici), il sogno della concezione e soprattutto il testamento di Tito nascono dalla fantasia di De André per costruire una storia che termini, fisicamente e nel contenuto, con "lodate l'uomo". Dei versi di Fabrizio, ormai giunto alla maturità espressiva, c'è da segnalare l'uso della metrica e della rima. Ne è divenuto così padrone da non perdere occasione per proporre un'immagine. E qui le immagini si rincorrono, si sovrappongono, si ammucchiano una contro l'altra dal primo verso all'ultimo. Apparentemente senza fatica. E invece è stata fatica, di un anno di lavoro, molti giorni e molte serate e troppe notti. Credo che con questo disco De André entri a far parte, volente o nolente, sia bene o sia male, del costume italiano. [dalla nota di copertina dell'album, di Roberto Danè] Sonorità nuove si fanno strada in questo disco che, com'è noto, mette in musica una lettura tutta particolare del Nuovo Testamento, fatta alla luce dei Vangeli apocrifi (cioè falsi, contraffatti, non canonici) scritti tra il I ed il IV secolo dopo Cristo. Densi di tradizioni popolari, di avvenimenti e particolari sulla vita di Maria, di Giuseppe, dei ladroni, che non trovano posto nei quattro Vangeli canonici e che invece sono profondamente radicati nel nostro immaginario evangelico, fin dall'infanzia, gli apocrifi privilegiano gli aspetti umani e non teologici della Buona Novella. E De André, utilizzando queste fonti, narra l'avventura di Cristo come da dietro le quinte, attraverso tutto ciò che è accaduto prima e intorno alla Crocefissione, attraverso quei fatti e quelle persone che il rito non commemora - chi pensa mai al falegname che ha sagomato le croci, alle reazioni della folla? - o che ha ormai sublimato, come la figura della Madonna che è cantata, per tutto il primo lato del disco, come una fanciulla che passa dalla verginità alla maternità in un'estasi onirica e sensuale, d'estate, quasi volando fuori di sé; mentre il messaggio evangelico vero e proprio, il suggellamento dei dieci comandamenti attraverso l'esperienza e la sofferenza in prima persona è affidato a Tito, il ladrone buono del Vangelo arabo dell'infanzia, che commenta i precetti divini nella forma, di nuovo di un testamento. Oltre a quanto ha scritto Roberto Danè nella presentazione del disco, va notato l'affiorare di una poesia visionaria, soprattutto in Il sogno di Maria, di immagini e voli linguistici ancora racchiusi in una struttura classica del verso (a rima o ad assonanza baciata in questo caso) e dello schema armonico, che De André comincerà a sciogliere e modificare di lì a poco. Non sembra casuale, riflettendo su questo disco a venticinque anni anni di distanza, l'interesse di De André per le sonorità dell'Oriente mediterraneo, che daranno i loro frutti più pieni nell'ambito del progetto musicale di Creuza de mä, nella piccola e commovente Sidun. La buona novella è un disco colto, carico di stratificazioni visive e letterarie: basti pensare, nelle Tre madri, a quella ripetizione del termine "figlio", che ha un precedente antico nel duecentesco Pianto della Madonna di Jacopone da Todi, e ai soffusi riferimenti iconografici e ambientali, nell'Infanzia di Maria, agli affreschi di Cimabue e di Giotto. Tutti elementi che De André utilizza e trasforma, trasfigura allo scopo di creare immagini, visioni, di penetrare tra gli occhi ed il cuore di chi ascolta e, ascoltando, vede. [Doriano Fasoli, Fabrizio De André. Passaggi di tempo, p. 129] Il conflitto fra la legge dei potenti e le umane vicende trova in La buona novella una delle più alte espressioni della poesia di De André, il quale affida ai colori, ora tenui ora violenti, delle immagini che va a raffigurare con i suoi versi (così come Pier Paolo Pasolini aveva fatto con il bianco e nero delle sue pellicole) i contrasti quasi archetipici tra i pregiudizi dei dogmi, il sofferto sapere esperenziale del popolo e la violenza, sempre uguale a se stessa, del potere che difende sé e i propri privilegi. Ogni personaggio dei Vangeli, con De André, perde la sacralità fittizia e oleografica delle narrazioni ufficiali per guadagnare, nel bene e nel male, umanità. [...] La scelta di cantare i Vangeli apocrifi è di quelle che meritano più di una considerazione. Gli apocrifi, anzitutto, in quanto segreti (prima ancora che falsi, come li aveva voluti la terminologia comune influenzata nei secoli dalla Chiesa che, in questo modo, celava appunto il desiderio di mantenerli nascosti), danno la possibilità a Fabrizio De André di operare, una volta di più, quello svelamento della commedia umana, mistificata dalla cultura dei pochi sull'ignoranza dei molti, e quindi di mettere in luce vizi e virtù di oppressi e oppressori. Ma i Vangeli mettono in evidenza anche dell'altro. Quando De André pubblica La buona novella è il 1970, l'anno immediatamente successivo alla strage di Piazza Fontana, l'anno delle grandi manifestazioni studentesche e antifasciste, l'anno della rivolta di Reggio Calabria. Il 1970 è anche l'anno di Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni e di Indagine su un cittadino al disopra di ogni sospetto di Elio Petri, l'anno di La comune di Dario Fo e di La ballata per Pinelli. [...] Nel 1970, da mesi ormai venivano pubblicati e distribuiti più o meno regolarmente Lotta continua, Potere operaio, Il Manifesto. Cosa c'entrava La buona novella in quel clima? Apparentemente nulla. Inadatta a creare facili emozioni e gratificazioni pseudo-rivoluzionarie per il pubblico militante; impegnativa e troppo riflessiva per tutti gli altri che si accontentavano delle "canzonette" usa e getta. La buona novella sembra essere quanto di più distante dal comune sentire di quegli anni. Il fatto che il disco raggiunga il vertice delle classifiche di vendita e rimanga nei decenni a venire una delle opere maggiormente ricordate dal pubblico di Fabrizio De André, smentisce le apparenze e impone quindi una riflessione attenta riguardo al rapporto dialettico che negli anni si è stabilito tra l'autore e i fruitori della sua produzione. [...] A partire proprio dagli esordi, [...] Fabrizio De André privilegia una canzone colta, "una canzone civile, intrisa di problemi, a modo proprio di vera e propria coscienza storica" (U. Eco). Eva a scegliere il suo pubblico in una élite culturale medio-altacui i modelli sociali e di consumo tipici di una società affluente o neo-affluente vanno sicuramente "scomodi". È un pubblico che, tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta, è andato maturando scelte culturali di più ampio respiro rispetto alla società nella quale vive. [...] Questo pubblico sviluppa, anche se con posizioni differenziate e contraddittorie, una critica radicale alla società borghese. Sono gli anni dei Quaderni rossi, dei Quaderni piacentini, delle mobilitazioni di massa per Cuba e dell'inizio della protesta contro la guerra nel Vietnam accompagnata dalle canzoni antimilitariste e pacifiste di Bob Dylan (Blowin' in the Wind è del 1962) e Joan Baez, ma anche (per i più raffinati cultori della tradizione popolare italiana) dai canti del Nuovo canzoniere italiano, dalle sperimentazioni musicali di Franco Fortini e Italo Calvino. Dall'Inghilterra arrivano la minigonna di Mary Quant e la musica dei Beatles che determineranno una vera e propria rivoluzione nei gusti e nelle mode giovanili. Tanto quanto stava facendo il messaggio "Fate l'amore non la guerra" che, dalle manifestazioni antinucleariste guidate da Bertrand Russell a quelle dei beatnik e degli studenti dei campus statunitensi contro il razzismo e le guerre imperialiste, arriva ai giovani italiani, dando loro [...] la convinzione che "il mondo era a un passo dalla rivluzione o, quantomeno, da una trasformazione irreversibile" (G. Castaldo). In questo contesto Fabrizio De André diventa quasi immediatamente un autore di culto. La spregiudicatezza dei contenuti e del linguaggio usato (è, forse, la prima volta che in Italia "puttane" e "battone" fanno la loro comparsa senza eufemismi o metafore su un quarantacinque giri), creando da subito verso De André un'empatia che avrà un ruolo non indifferente nella costruzione di un immaginario collettivo anticonformista e spregiudicato in quei giovani borghesi acculturati che iniziano a credere in una loro funzione storica nel rivoluzionamento della società dei padri. Le loro letture (che mescolano indifferentemente Jean-Paul Sartre, Albert Camus, Karl Marx, Nikolaj Lenin, Frantz Fanon, Mao Tse-tung, Cesare Pavese, ecc.), il contatto con i figli degli operai favorito dalla scuola media unificata, la partecipazione diretta e indiretta alla nascita dei primi complessi musicali di protesta, [...] l'assunzione di stili e modelli utili a sottolineare la diversità generazionale (i jeans, i capelli lunghi, le minigonne, l'abbigliamento di origine militare modificato e utilizzato in modo daridicolizzare i simbolismi dell'autorità), fanno sì che in breve tempo si sviluppi un processo di contestazione globale contro ogni forma istituzionale e autoritaria (famiglia, scuola, lavoro in primo luogo). Le parole di De André, pur se anacronistiche rispetto a quanto stava succedendo nella società italiana, e occidentale in genere, [...] hanno invece un effetto dirompente per chi, attraverso la scuola e la televisione, assorbiva la cultura dell'"Italia-che-lavora", andava a messa e si divertiva con il Festival di Sanremo, il Carosello e le imitazioni di Alighiero Noschese in tv. [...] Così, con l'esplosione di quello che è stato chiamato "il Sessantotto", ci si sarebbe potuto aspettare anche da De André un aggiustamento di tiro per continuare a rapportarsi con quel "suo" pubblico, ora alle prese con occupazioni di facoltà universitarie, con scontri di piazzacontro le forze di polizia, con picchettaggi davanti alle fabbriche. Niente di tutto questo. [...] Alle utopie libertarie del maggio parigino che volevano "l'immaginazione al potere", Fabrizio De André, in assoluta controdendenza, [...] oppone ancora - e si può dire: al massimo grado - la sua umanità di perdenti con uno dei dischi certamente più grevi dell'intera sua produzione: Tutti morimmo a stento. [...] Quando arriva a La buona novella, quindi, De André gioca la sua scommessa più importante: non solo non si fa interprete immediato delle urgenze storiche del nuovo decennio che si apre, ma, ancora una volta, si muove in controtendenza affrontando il "sociale" dal versante più imprevisto e imprevedibile per quella stagione, ossia trasponendo la lotta delle classi nell'epoca remota dei Vangeli e dando di essi la lettura moderna del mai risolto conflitto tra oppressi e oppressori. [Romano Giuffrida, Bruno Bigoni, Accordi eretici, pp. 45-54] |