• Anime salve è stato premiato da "Musica! Rock & altro" (supplemento del quotidiano "la Repubblica") come il miglior album tra quelli pubblicati nel 1996.


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    Questo Anime salve è un disco il cui significato deriva dall'etimologia delle due parole: vuol dire "spiriti solitari". È un elogio della solitudine.
    Mi rendo conto che non tutte le persone possono stare da sole. I vecchi, gli ammalati, i politici; il politico, da solo, è un politico fottuto.
    Però credo che, per chi se lo può permettere, sia meglio vivere il più possibile appartati, perché si ha più accordo con il circostante, e il circostante non è fatto soltanto di nostri simili; è fatto di alberi, di colli, di mari...
    Accordandosi con il circostante si ha anche la possibilità di impararsi meglio, di conoscersi meglio e, conoscendosi meglio, si riesce più facilmente a risolvere i propri problemi e, forse, anche quelli degli altri. Ora, sono l'ultima persona a poter dare un consiglio a qualcuno, me ne vergognerei. Però dico che il più possibile si vive da soli, meglio si vive: prima di tutto, non si fa del male a nessuno; in secondo luogo, difficilmente te ne fanno. Quello che veramente mi fa paura sono le aggregazioni, le consociazioni: è al loro interno che nascono i germi delle violenze, perché le aggregazioni si danno delle regole, per rispettare le quali creano le polizie; i capi fanno sì che le altre associazioni non possano interferire; si creano così gli eserciti. A partire dalla bocciofila, tanto per dire, per passare al Lions Club e arrivare fino allo stato. Questo ho sempre pensato.
    Non vuole essere un elogio della solitudine in senso assoluto, dell'anacoretismo. Sono il primo a dire che ho molti bisogni da espletare e lo faccio, di solito, attraverso il contatto con i miei simili. Sono bisogni di carattere spirituale, economico, sessuale, culturale. Dopo, tutto sommato, è meglio tornarsene a vivere in contemplazione di se stessi. Questo ho imparato e lo trasmetto anche a voi.
    [presentando l'album al Palasport di Treviglio, 24/3/1997]


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    Questo lavoro può sinteticamente definirsi come l'osservazione e la descrizione di svariate e diseguali solitudini. Quella di chi scrive, che volontariamente si apparta dal contesto sociale evitandone per quanto possibile i coinvolgimenti emotivi e gli aberranti schieramenti dettati da convenzioni o convenienze. Un estraneamento necessario per tentare una testimonianza, il più possibile equilibrata, di molte altre solitudini non vissute soltanto in funzione di un'originaria libera scelta o di un'originaria diversità ma, proprio a causa di quella scelta e di quella diversità, imposte da un mondo circostante e maggioritario che rifiuta di riconoscerti in quegli universi spirituali e in quei comportamenti differenti che appartengono alle infinite minoranze, costringendole in uno status di isolamento pià o meno tollerato.
    Isolamenti o solitudini che vengono vissuti con dignità, con orgoglio e addirittura fierezza o con il disperato sconforto di chi si sente abbandonato.
    Il titolo dell'album si rifà all'etimo delle due parole, "anima" e "salvo", e vuole mantenere il significato originario di "spirito solitario".
    [...] La musica dell'intero CD segue il nomadismo delle parole (italiano, romanes, brasiliano e genovese) e dei personaggi attraverso l'impiego di strumenti di diversa origine organica e di varia geografia conferendo all'intero lavoro i connotati di un linguaggio sincretistico dalle sonorità etnico-classiche.
    [da una nota scritta sulla rivista "Etnica & World Music". In Doriano Fasoli, Fabrizio De André. Passaggi di tempo, pp. 73-77]


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    Per iniziare a riflettere su questo lp di Fabrizio De André e Ivano Fossati - le nove canzoni sono firmate, testo e musica, da entrambi - può essere utile riferirsi preliminarmente ad un'affermazione di De André che coinvolge anche Fossati: "Non ce lo siamo mai detto però... (questo disco) era un concept album sul tema della solitudine" (La Repubblica, 19 sett. 1996).
    Detto ciò, una seconda illuminazione viene dal ricordare che "anime salve" - secondo De André - significa etimologicamente "anime solitarie" e per estensione "spiriti liberi" (cfr. Musica del 17 maggio 1997).
    Sinteticamente poi possiamo dire che ai temi della solitudine e della libertà si lega, in maniera tutt'altro che estrinseca, quello del conflitto tra destino e salvezza, tra destino e libertà, tra destino imposto e scelte individuali, tra poteri "forti" e minoranze resistenti e renitenti.
    Per comprendere tutto questo è utile ricordare in prima istanza i versi di Smisurata preghiera, la canzone che chiude il disco. Qui infatti si dice in forma quasi riepilogativa delle varie storie raccontate nel disco e forse dell'intero canzoniere di De André: "Ricorda Signore questi servi disobbedienti / alle leggi del branco / non dimenticare il loro volto / che dopo tanto sbandare / è appena giusto che la fortuna li aiuti" e si prega che questo miracolo pietoso avvenga proprio "per chi viaggia in direzione ostinata e contraria / col suo marchio speciale di speciale disperazione", per chi "tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi / per consegnare alla morte una goccia di splendore, / di umanità, di verità".
    A questi "servi disobbedienti alle leggi del branco", alla loro ricerca di una propria verità, in nulla arrogante ma vissuta con preziosa dignità umana si contrappone, come sempre in De André, la "maggioranza" che detiene il dominio e il potere: "Alta sui naufragi / dai belvedere delle torri / ... / a guidare la colonna di dolore e di fumo / ... / coltivando tranquilla / l'orribile varietà / delle proprie superbie / la maggioranza sta".
    È da precisare che la parola "maggioranza" è intesa da De André in modo particolare: "Oggi maggioranza ha un significato numerico, ma deriva dal termine latino maior, che al plurale fa maiores. I maiores nel mondo latino erano coloro che detenevano i privilegi ed esercitavano l'autorità e il potere. Oggi questi maiores sono diminuiti di numero, ma la loro diminuzione è direttamente proporzionale all'aumento in loro favore dei privilegi, dell'autorità, del potere, (ormai) pressoché illimitati [...]. I minores... saremmo tutti noi al di lù del mestiere che facciamo... Credo che la gente si sia per questo identificata con le minoranze emarginate, le protagoniste di Anime salve. È per questo che oggi, secondo De André, "una larga parte di popolazione comincia a sentirsi minoranza" (cfr. Musica del 17 maggio 1997).
    Non stupisce pertanto trovare, ancora in questa ricchissima canzone, ancora tra questi servi disobbedienti, ancora fra queste minoranze, Cristo che ad "Aqaba curò la lebbra con uno scettro posticcio", un Cristo vestito di stracci eppure capace di fare miracoli, di contrapporre a costo della vita il suo "vasto programma di eternità" e di universale pietà, alla rabbia meschina di coloro che detengono il potere e lo usano per i propri miserabili vantaggi.
    Sinteticamente credo sia giusto dire che in questa canzone non solo viene descritto in termini di fuoco questo insanabile contrasto, ma si ritrovano tutti i termini chiave di De André: fortuna, destino, potere, umanità, Dio, fede... A proposito di tutto questo - in un intervento scritto del dicembre 1996 - dice apertamente De André: "C'è chi è toccato dalla fede e chi si limita a coltivare la virtù della speranza [...]. Il Dio in cui, nonostante tutto, continuo a sperare è un'entità al di sopra delle parti, delle fazioni, delle ipocrite preci collettive, un Dio che dovrebbe sostituirsi alla così detta giustizia terrena in cui non nutro alcuna fiducia alla stessa maniera in cui non la nutriva Gesù, il più grande filosofo dell'amore" (Buscadero 175°, dicembre 1996).
    Dettati così i confini ideologici del mondo poetico di questo disco di De André e Fossati - il potere e chi al potere sfugge o tenta di sfuggire o si contrappone per le più varie ragioni personali o politiche - è facile intuire perché tutto il disco, come si vedrà una canzone dopo l'altra, sia un racconto di solitudini e di libertà, un susseguirsi di storie di emarginati e di minoranze, raccontate con un fortissimo impianto realistico e un altrettanto forte slancio lirico, descritti sempre in termini di solidarietà e "medesimezza" umana: ognuno dei protagonisti dei loro racconti in versi e musica è infatti un volto di cui sono date ragioni e dignità.
    Non può stupire in questo contesto che una canzone sia dedicata al popolo Khorakhané, tribù rom nomade ma di origine serbo-montenegrina, che ha fatto della libertà, dell'essere vento, del non avere proprietà né terra, la propria religione. De André e Fossati, con la straordinaria presenza di Dori Ghezzi, cantano la loro immane tragedia, il momento in cui "un uomo ti incontra e non si riconosce", il momenti in cui "ogni terra si accende e si arrende la pace", il momento in cui "i figli cadevano dal calendario / Jugoslavia Polonia Ungheria / i soldati prendevano tutti / e tutti buttavano via...".
    Questo dunque il credo di De André, poeta anarchico e libertario: il riconoscere in ogni uomo e in ogni storia la propria storia e il proprio volto, e quindi il porre a fondamento del senso dell'esistenza un sentimento di fratellanza universale e di consanguineità esistenziale. Fuori da questo patto di pietà fraterna, per usare ancora le parole di questa canzone, vi è solo chi crede "di raccogliere in bocca il punto di vista di Dio".
    Qui è da osservare, in primo luogo, che De André uomo poeta e narratore recepisce l'altro e il diverso come ricchezza e, quindi, non come minaccia, ma come parte imprescindibile di se stesso.
    Poi va rilevato che questa sua fortissima capacità di immedesimazione, che questo suo sapersi riconoscere nell'altro, nel diverso, non rimane in cui una mera considerazione etica, ma di origine a un'altrettanto forte capacità fantastica e fabulatoria.
    Vi è dunque un duplice perno - a un tempo etico e fantastico - che sostiene tutto il raccontare poetico-musicale di De André.
    Con la stessa pietosa attenzione si passa dunque dalla immane tragedia di un popolo - in un'intervista De André ricorda che l'olocauto degli zingari, contemporaneo a quello degli ebrei, ha fatto non meno di mezzo milione di vittime - a quella personale, ma non meno intensa, di un viado brasiliano chiamato, in arte, Prinçesa (questo il titolo, oltre che della canzone a lei dedicata, di un romanzo autobiografico edito per la casa editrice di Renato Curcio, Sensibili alle foglie).
    Non può stupire, alla luce di questa ribadita fratellanza, che se la chiusa di Khorakhané (a forza di essere vento) era in lingua romanes, qui sia invece in brasiliano, la lingua madre del nostro viado, uomo mancato e anima in croce, quasi che, in un caso e nell'altro, solo il farsi carico di una lingua "altra" possa essere l'origine di un'autentica compartecipazione esistenziale...
    A questa volontà di essere contro e di identificarsi con gli ultimi si può far risalire la scelta di De André di usare nei suoi ultimi dischi i più vari dialetti e le lingue delle minoranze etniche: questo perché il dialetto e le lingue "altre" rispetto all'italiano sono già intrinsecamente le lingue della resistenza al potere che usa sempre una lingua "colta".
    Se, dopo il racconto di "Fernandino-Prinçesa" che si ribella al suo destino e che corre "all'incanto dei desideri e... a correggere la fortuna", prendiamo Ho visto Nina volare troviam, nascosto nelle pieghe di quella che potrebbe sembrare una favola, un altro aspetto del conflitto radicale che segna la vita dell'uomo: l'urgenza del desiderio di contrasto con la legge e la norma, il passare del tempo e la caducità della vita.
    Se appena ricordiamo che anche Freud ha raccontato tutto questo parlando di Es e Super-Io, parlando della tragedia di Edipo e del conflitto con il padre, può non stupire il trovare anche qui un figlio e un padre in conflitto. Da sottolineare invece che il contrasto con la legge del padre è talmente forte e radicale che la scissione la troviamo nell'animo di chi vede e sogna Niva volare. Vediamo infatti crearsi nell'animo del protagonista - scosso dall'urgenza conflittuale del desiderio e del fatto che questo desiderio sia illecito - una doppia identità, un'ombra, un alter ego malvagio ma irresistibile... Sua, del doppio, la cantilena, dolcissima e terribile, che ripete "mastica e sputa, da una parte il miele / mastica e sputa, dall'altra la cera, / mastica e sputa, prima che venga neve", ossia gioca le tue carte prima che sia tardi. Inutile mostrargli il colello, inutile cercare di sfuggire al proprio destino... un giorno - dice, senza scampo, il protagonista - "prenderò" Nina "come fa il vento alla schiena... e se lo sa mio padre... mi imbarcherò lontano... dovrò cambiar paese". Resta la domanda, senza risposta, su chi distribuisce le carte, su chi decide i destini, su di chi sarà "la mano che illumina le stelle... la mano che ti accende e ti spegne", ossia, fuori di metafora, su chi ti dà la vita e la morte.
    Ancora una volta De André si accosta ai destini degli uomini, alle loro disperate solitudini e abissali disperazioni, con grande rispetto lasciando il giudizio a "chi sa di raccogliere in bocca il punto di vistadi Dio" e dunque anche per il figlio colpevole vale un'altra, ormai antica, smisurata preghiera di De André: "se giudicherai da buon borghese / li condannerai a cinquemila anni più le spese / ma se capirai, se li cercherai fino in fondo", capirai che "anche se non sono gigli / son pur sempre figli, / vittime di questo mondo" (Dalla Città vecchia, rielaborazione di De André di una poesia di Umberto Saba intitolata anch'essa Città vecchia.
    Il ricordo di questa canzone, con i suoi "quattro pensionati mezzo avvelenati", così centrali in De André - Prinçesa e l'innamorato della piccola Nina sono a pieno titolo "abitanti della Città vecchia" - può farci rilevare che in questo disco manca completamente un registro che pure era stato spesso presente in altri suoi lavori, il registro comico o almeno sarcastico... Anche il sorriso con cui accompagniamo la storia della Cúmba, della colomba "malmaritata", è un sorriso amarissimo. Infatti la canzone intitolata  cúmba ancora una volta, più che una favola, è in realtà il racconto di una disillusione, uno scerzo di quei tanti che fa la vita (per usare le parole di un amico di De André). Dopo tante promesse, dopo tanto parlare tra il pretendente e il padre ("la terrò a dondolarsi sotto una pergola di melograni / con la cura che ha della seta la mano leggera del bambagiaio") la verità è che "il marito va a zonzo" e la "colombina" è diventata "una serva a lavare a terra". Un destino assurdo, ridicolo - per usare il titolo del romanzo scritto da De André con Alessandro Gennari e intitolato appunto Un destino ridicolo... Ma di fronte al precipitare della bianca colomba, spento e bruciato in fretta il sorriso, viene da chiedersi se esiste un destino che non sia, in fondo, ridicolo, assurdo. Se esiste cioè, per usare le parole di un'altra canzone di De André e Fossati - Disamistade - "un modo di vivere senza dolore", un modo di fermare "questa corsa del tempo a sparigliare destini e fortune"?
    Se su questa domanda torneremo in sede di precaria conclusione, intanto è importante notare che il tema del destino, della fortuna, della sorte, è presente in tutto il disco. Infatti, oltre che in Ho visto Nina volare il ragionamento sul destino che guida la nostra vita, sulla possibilità di cambiare la sorte della nostra vita, lo troviamo, oltre che nelle canzoni sopra citate, in Dolcenera dove il cataclisma improvviso muta l'acqua da benedetta in acqua di mala sorte, un momento proprio e d'amore in qualcosa che spezza definitivamente una vita.
    Ancora alle leggende e alle cronache popolari si rifà la canzone Le acciughe fanno il pallone, dove troviamo oltre al tema della fortuna - recitato dalla bocca di un giovane pescatore - un verso di rara sensualità, dove è il non detto a dare, assieme alla scossa del desiderio, la sensazione dell'esclusione e della marginalità: "Passano le villeggianti / con gli occhi di vetro scuro / passano sotto le reti / che asciugano sul muro / e in mare c'è una fortuna / che viene dall'oriente / che tutti l'hanno vista / e nessuno la prende... se prendo il pesce d'oro / ve la farò vedere / se prendo il pesce d'oro / mi sposerò all'altare".
    Detto tutto questo credo sia ora giusto parlare di Anime salve, una canzone tanto importante da dare il suo nome all'intero lp, e al tempo stess molto enigmatica. Se infatti sul fronte delle scelte etiche e politiche, in senso lato e alto, le posizioni di De André e Fossati sono molto chiare e molto determinate, sul piano delle scelte esistenziali tutto, e giustamente, diviene molto più sfumato. Anime salve parla di questo ed è una canzone fatta sì di immagini luminosissime, ma anche di forti "zone d'ombra".
    Se dunque non è possibile ricostruirne il senso - il senso è l'emozione fortissima che lascia questa canzone, la sua magia fatta delle voci e delle musiche di De André e Fossati - questa credo che sia la trama logica: anime salve sono le persone che hanno accettato e vivono con esatta lucidità - spietata ma anche gioiosa - la vita come una condizione ontologica di solitudine: "Che bello il mio tempo... che grande questo tempo... che solitudine, che bella compagnia". Dunque anime salve perché anime solitarie (De André in un'intervista - già prima ricordata - dice che salve, secondo una sua personale interpretazione etimologica, vuol dire proprio solitarie); salve pertanto perché capaci di "illudersi e fallire", di guardarsi piangere e ridere, di arrivare e partire, di vincere e perdere nel gioco alterno della vita e della fortuna... Ossia, di vivere questo tempo ("che grande... che bello questo tempo") nella sua fugace ma straordinaria bellezza: "sono state giornate di finestre adornate, canti di stagione... sono state giornate furibonde, senza atti di amore... solo passaggi... passaggi di tempo").
    Ancora e per finire, se di parlare di una canzone come questa si può finire, anime salve perché capaci di sapere quello che i poeti sanno sempre, che, nonostante ci siano stati e ci saranno mille "incontri... cacce... rincorse... scontri", siamo soli e che ogni altra verità è un inganno; che è quanto ci ha detto in maniera lapidaria il poeta Salvatore Quasimodo: "Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole / ed è subito sera".
    Ma sia chiaro che essere consapevoli di questa solitudine esistenziale non vuol dire isolarsi, credere che "il dolore degli altri / è un dolore a metà".
    Al contrario per De André e Fossati questa solitudine "buona" è la premessa ad un incontro libero e maturo con gli altri, ad una lotta per la libertà di ogni "minoranza" e contro lo "strapotere" di ogni sedicente "maggioranza".
    Perché se come vuole la sapienza ebraica in ogni istante può giungere il messia, se "in mare c'è una fortuna che viene dall'oriente che tutti l'hanno vista e nessuno la prende", ogni istante è buono per gettare la rete. Fuor di metafora: la partita non si chiude, il gioco continua, bisogna ancora una volta scegliere da che parte stare. De André e Fossati, con questo disco e con la storia che ci sta dieto, la loro scelta l'hanno fatta.
    [Paolo Jachia. In Doriano Fasoli, Fabrizio De André. Passaggi di tempo, pp. 271-278]


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    Anime salve [dà] ancora voce, e quindi spessore di dignità, a chi tra le nuvole deve comunque vivere subendone, spesso per primo, i rovesci.
    Fernandino Prinçesa, donna nel cuore e uomo nel corpo, che con "il bisturi per seni e fianchi" va a "correggere" la fortuna; il rom che "si è fermato italiano / come un rame a imbrunire su un muro"; le anime salve che hanno superato "giornate furibonde / senza atti d'amore / senza calma di vento": non sono forse le figure dimenticate o addirittura occultate (perché inutili e ingombranti), da quella logica illogicità di un progresso il cui unico obiettivo è il profitto? E il fatto di cantarle, proprio nel momento in cui transessuali, zingari e diversi in genere stanno diventando, per le nostre civili città, e non solo per le forze di polizia, problema di ordine pubblico, non è forse, ancora una volta, cercare di "consegnare alla morte una goccia di splendore / di umanità di verità" e quindi ancora viaggiare in direzione ostinata e contraria insieme ai Miche', alle Jamine, ai Tito di sempre?
    [Romano Giuffrida e Bruno Bigoni, Fabrizio De André. Accordi eretici, pp. 61-62]