Stava prendendo appunti, Fabrizio De André, per un nuovo album. Chissà quando sarebbe apparso. "È l'unica maschera che in fondo so indossare, quella del cantautore", mi disse l'estate scorsa, quando c'incontrammo a Viterbo, nel corso delle prove che precedettero di qualche giorno il suo concerto romano. Decidemmo allora che era tempo di rimetter mano al "nostro" libro, La cattiva strada. Stabilimmo di vederci in autunno, a Milano o in Sardegna. "Intanto pensa al titolo". "Più curioso, meno stanco, meno ubriaco di voi" - suggerii io. E lui: "No, sa troppo di autoincensamento. Trovane un altro". "Passaggi di tempo?". "Sì, d'accordo, questo suona meglio".
Negli anni Sessanta il mondo delle canzoni "altre" aveva conquistato un pubblico fatto di intellettuali e studenti: un pubblico che, al pari di quelle canzoni, si voleva diverso; tanto da confonderli, cantautori e fruitori, in un solo universo vagamente esoterico. Chi, per ragioni anche soltanto anagrafiche, si fosse trovato fuori di questo ambiente avrebbe rischiato di mancare del tutto l'incontro con le voci "diverse". Le vere rose Ancora a metà degli anni Sessanta il recinto Scuola-Famiglia era impermeabile alla contaminazione di testi che non fossero in linea con le direttive del Ministero o del Buon Senso Comune: e le parole provocatoriamente poetiche di un De André faticavano a ottenere l'ascolto di orecchie adolescenti, ingabbiate dentro una tela di melodie rassicuranti o soporifere o svegliate dalle rituali aggressioni dell'autoritarismo parentale. Quando il caso o la predisposizione riuscivano a fare breccia nelle singole prigioni, allora poteva avvenire che i personaggi di questo nuovo mondo cantato acquistassero una forza tale da promuovere aperture a volte definitive. De André in particolare: ci si sentiva apparentati all'umanità derelitta che usciva dalla sua penna; legittimati e insieme riscattati dalla voglia di rompere i legacci di una società che pareva soffocare. De André ci appariva scorporato dallo scemenzaio edulcorato (già allora così strabordante) dell'universo radio-tele-discografico: custode di un'isola intelligente, ove non fosse necessario, per sopravvivere, di sbellicarsi nel trionfalismo consumistico. Nelle sue canzoni, quando si diceva di rose erano rose davvero, con tutte le conseguenze che implica il loro esserlo; e maggio era un mese senza smancerie; e la vita vita, la morte morte ("Paura della morte ce l'abbiamo naturalmente tutti. Per evitarla bisognerebbe non pensarci, ma è assolutamente impossibile evitare di farlo. A un certo punto ci si comincia a pensare. Io credo che il giorno in cui avrò paura della morte, e vorrà dire che ci comincio a pensare, sarà perché sono diventato finalmente adulto e allora questo significherà probabilmente che sono prossimo a morire. Per adesso non mi sfiora il pensiero. Mi sento abbastanza abile, sano, ho molte cose di cui occuparmi e tutto sommato riesco ancora a divertirmi"). In sostanza, dicevamo, si trattava di una singolare iniziazione laica in grado di suscitare, negli anni a venire, altri interessi e altre ricerche, musicali e non, "ascolti" differenti della realtà. Tra onde e passioni Avendo sempre fuggito una maniacale attualità, De André si trovava oggi a esprimere (quasi solitario) una crudezza di tematiche e di argomenti che toccano l'intimo di molte aberrazioni, la parte più profonda, affettiva, delle degenerazioni. Nelle sue storie apparentemente senza tempo, tra fiorite e però "essenziali" metafore, si possono cogliere le inquietudini di almeno un paio di generazioni. Il paesaggio, il dolore, la voluttà, la morte, la solitudine...; e insieme il piacere commosso dell'attimo che si manifesta in un'onda che si frange, in una bella passante che ci sfiora, in una barca all'orizzonte, in un pescatore assopito. Nel canto, nello sviluppo della sua ricerca e della sua poesia De André ha continuato a darci la sensazione di non prendersi troppo sul serio, di saper ironizzare su se stesso, che forse è il migliore dei modi per esprimere tutto l'impegno ("Io sono stato educato in una maniera per cui ho sempre pensato di dover essere socialmente utile per contare qualcosa, soprattutto di fronte a me stesso. Non per demagogia o per poer dire 'io sono socialmente utile', ma proprio per soddisfare delle mie esigenze private. In tutti i miei lavori mi sembra che l'impegno sociale ci sia sempre. Può anche risultare maldestro, certe volte moralistico e quindi forse diventa addirittura bieco, però sempre fatto, penso, con estrema coerenza rispetto alle mie capacità espressive e sempre con l'intento di rendermi utile alla collettività. Questo sicuramente sì, e non sarebbe mica male se ognuno di noi si sforzasse di esserlo almeno un po'" Omaggio di un poeta Mario Luzi, uno dei maggiori poeti del Novecento, incontrato di recente a Firenze, mi ha ribadito il suo entusiasmo per l'opera di De André che egli ha recentemente (ri)scoperto: "Non conoscevo Fabrizio De André, o, più precisamente, non avevo mai seguito la coerenza del suo lavoro. Quando mi è stata chiesta l'introduzione - sotto forma di lettera aperta - a una raccolta di saggi su di lui (pubblicata poco tempo fa), mi sono fatto mandare tutti i suoi album, li ho ascoltati con attenzione e posso dire che De André mi piace molto, perché è veramente lo chansonnier per eccellenza. Cioè un artista che si realizza proprio nell'intertestualità tra testo letterario e testo musicale. Mi sono dunque reso conto che era una lacuna che io non lo conoscessi, perché ha una storia e perché morde davvero. Spero anche di avere presto l'occazione d'incontrarlo personalmente". |