A Genova, sul finire degli anni '60, c'era un gruppo di ragazzi che pensava di cambiare il mondo usando la musica. Gino Paoli, Bruno Lauzi, Luigi Tenco e Umberto Bindi si ritrovavano nella zona della Foce del quartiere di Boccadasse per discutere della canzone francese di Jacques Brel e Georges Brassens.
Tra loro c'era anche Fabrizio De André, l'eccezione del gruppo. Oltre ad essere il più giovane, era pure l'unico che giungeva a Boccadasse dai quartieri bene di Genova (suo padre era un ricco industriale dello zucchero). Forse proprio per questo vizio d'origine sociale tra Paoli, Tenco, Lauzi, Bindi e De André non si consolidò mai del tutto un rapporto duraturo d'amicizia. Il giovane Fabrizio era scontroso, introverso, un po' anarchico e irascibile come gli altri ma poteva pur sempre fare ritorno nella casa dorata se lo avesse voluto. Quando via via arrivò il successo per tutti i componenti del gruppo, anche il destino artistico aveva preso strade diverse. Paoli, Tenco, Lauzi e Bindi avevano scelto di rinnovare la canzone d'amore rivoluzionando metrica e metafore, De André si muoveva su altri sentieri: riscopre le ballate e più degli altri reinventa lo stile di Brel e Brassens (il primo lp è datato '66). Del resto, gli chansonnier francesi erano stati coloro che avevano ridato dignità artistica alla canzone d'autore. In quegli anni De André tradusse Il gorilla di Brassens, raccontò gli emarginati della genovese Via del campo e la poco convenzionale Bocca di rosa. Poi vennero dischi a tema, come Tutti morimmo a stento (ispirato dal poeta maledetto Villon), La buona novella (i Vangeli della tradizione orale) o quello che richiamandosi all'Antologia diSpoon River passava in rassegna ogni tipo di peccatore (Non al denaro, non all'amore né al cielo). Ecco così che c'è una stessa ispirazione a legare quei primi dischi fino all'ultimo, Anime salve, dedicato a zingari e transessuali. In quello stile del tutto personale sta pure il segreto della durata del successo, fuori e oltre le mode musicali. Il ricco rampollo di una famiglia genovese ci ha raccontato - prima del sorgere di "Lotta continua" e prima del boom dell'emigrazione clandestina degli anni Novanta - come l'emarginazione fosse la malattia della nostra società opulenta e come a questa appartenessero tutti coloro che non sono in riga con i buoni costumi della società borghese. Lo sguardo amaro e dolce di De André sulle figure di emarginati finiva per deludere chi gli chiedeva di schierarsi politicamente in modo più limpido. Quando, all'inizio degli anni '70, uscì un suo album dedicato al maggio francese del '68 (Storia di un impiegato), molti della generazione successiva alla sua si sentirono traditi. Era ancora l'inafferrabile anarchico a prevalere su altre sensibilità, puntando il dito su una buona dose di nichilismo che albergava nei movimenti di rivolta di quegli anni e che non riuscivamo a vedere. De André, semplicemente, rifuggiva da comunismi ipotetici e da ideologie che avevano finito per massificare perfino Mao in un perfetto timoniere. Ma di lui vanno ricordate anche bellissime canzoni d'amore (Barbara, Fila la lana, Carlo Martello scritta con l'altro genovese doc Paolo Villaggio). E non si può neppure dimenticare la struggente melodia dedicata a Tenco, dove si invita a capire pure chi si suicida. Il rapporto di De André con Genova era di odio e amore (fuggiva dalla borghesia d'origine?). La Sardegna di Tempio Pausania era diventata il suo rifugio. In anni recenti aveva scritto e cantato un pezzo a quattro mani con Francesco Baccini (ex camallo del porto della città della Lanterna). Poi la collaborazione con Ivano Fossati, genovese d'annata, che non ha prodotto un cd, come avrebbe voluto all'inizio, ma solo qualche pezzo d'atmosfera. Eppure il capolavoro musicale e linguistico di De André è legato indissolubilmente a Genova e alla Liguria. Creuza de mä, dove c'è lo zampino di Mauro Pagani, un disco che non può mancare in ogni buona collezione che si rispetti. |